Chi l’avrebbe mai detto: Sylvester Stallone, eterno Rambo, fra un ciak e l’altro depone il bazooka e si arma di tavolozza e pennelli per sfogare lo stress. Proprio come Michelle Pfeiffer, che confessa: «Quando dipingo dimentico tutto il resto, è una cosa che amo così tanto da togliermi il fiato». Sì, perché non occorre essere Picasso per trarre piacere dall’arte. E non occorre sperimentare altro che l’uso di una scatola di pastelli per ritrovare l’equilibrio psicofisico. «Spesso accade che le mani sappiano svelare un segreto attorno a cui l’intelletto si affanna inutilmente», diceva Carl Justav Jung, uno dei padri della psicanalisi. Per questo dedicarsi all’hobby della pittura o della scultura può fare bene a tutti, benedetti o meno dal talento artistico. «Ci si rilassa e si ritrova un miglior equilibrio», spiega Flavia Facco, psicologa e psicoterapeuta all’ Asl 2 di Milano Segrate. «Dare forma concreta su una tela a un contenuto che inquieta la nostra psiche lo rende più comprendibile e meno ansiogeno. Ha un effetto catartico: lo esterna fuori di noi. Un po’ come quando un bambino ha paura del lupo cattivo e poi, quando magari ne vede uno in carne e ossa, di norma più minuto di un pastore tedesco, ha meno timore di quando lo ingigantiva nelle sue fantasie».
Sulla tela bianca si esprimono le emozioni
Molte persone nel tempo libero si sbizzarriscono con pennelli o argilla. Un bisogno primitivo: basti pensare agli uomini delle caverne di Cro-Magnon e ai graffiti che rappresentavano la caccia e ne esorcizzavano il terrore, ma anche ai bambini di tutti i tempi che ancora prima di imparare a parlare scarabocchiano a colori le proprie emozioni. Darsi all’arte da soli dona sollievo. Ma quando si attraversa un momento difficile, un disagio che non si riesce a superare, l’autocura non sempre è sufficiente. L’aiuto può arrivare allora da un professionista dell’arteterapia, ossia uno psicologo, un medico o un operatore sociale specializzati nell’usare le tecniche figurative in un percorso curativo.
«L’arteterapia è entrata 30 anni fa nelle strutture psichiatriche, per favorire la relazione con chi non riesce a comunicare con parole sensate, grazie a un linguaggio fatto di immagini», racconta Gregorio Merlin, psichiatra e docente di terapie dell’arte all’Accademia di Belle Arti di Venezia. «Ma adesso viene usata anche e soprattutto con pazienti non gravi: persone che attraversano un periodo delicato, un lutto, una separazione, il mobbing in ufficio, la perdita del lavoro o la solitudine della pensione. E si è dimostrata molto efficace anche nella cura di disturbi specifici come l’anoressia o il bullismo a scuola». Perché un disegno o una statuetta modellata con il pongo sono come una radiografia di pensieri e sensazioni di cui nemmeno siamo consapevoli. Una Tac delle emozioni.
Dipingere può servire ad affrontare i cambiamenti
Doveroso precisare che in Italia non esiste ancora un albo professionale degli arteterapeuti riconosciuto dallo Stato, come invece in Gran Bretagna o negli Stati Uniti. Anche se da Nord a Sud sono già migliaia gli specialisti del settore, molti dei quali riuniti nell’Associazione professionale italiana arteterapeuti, che ha un registro professionale, con tanto di scuole accreditate, nate con lo scopo di tutelare la qualità della formazione.
Come funziona un percorso? «Ci sono diversi approcci», spiega Marco Alessandrini, arteterapeuta e psichiatra al Centro di salute mentale dell’ospedale di Chieti. «Si può lavorare usando il medesimo codice espressivo della persona che si ha in cura: a un suo disegno si risponde con un altro disegno o con un suggerimento grafico o verbale che vada a completare l’immagine in modo da stimolare un’evoluzione psichica». Altri arteterapeuti preferiscono usare anche le parole per individuare i nodi psichici e provare a scioglierli . «Spesso tra i pazienti ci sono donne over 50», dice Merlin. «Un’età difficile: i figli si staccano dal nido familiare, si avvicina la menopausa, a volte si deve affrontare una separazione coniugale.
Per loro lavorare con le immagini significa riscoprire la propria originalità di persone, non solo donatrici di cure per altri. La creatività conduce ad affrontare i cambiamenti . Una signora, per esempio, disegnava sempre scenari d’acqua. Appena arrivata in terapia per una depressione reattiva, aveva dipinto nel suo primo quadro un mare in tempesta. In seguito, incoraggiata dal terapeuta, ha disegnato un lago. I toni andavano schiarendosi. Alla fine si è rappresentata sotto una cascata d’acqua che la lavava. Una rinascita».
Cartapesta e creta per accettare la propria immagine
Altri percorsi di arteterapia prevedono l’utilizzo di materiali diversi nelle prime cinque-sei sedute. «Si fanno provare matite, pastelli, collage, acquerelli per una conoscenza approfondita del paziente», spiega Achille De Gregorio, docente a contratto di arteterapia all’ Università Cattolica di Roma. «Cartapesta o creta sono utili soprattutto per chi ha difficoltà ad accettare la propria immagine o la sessualità. Poi si lavora sulla trasformazione dei pensieri e delle emozioni: vedo futuro/non vedo futuro. Per altri soggetti, invece, si procede nella direzione del recupero di oggetti simbolici del passato: per esempio, quel comodino che ho raffigurato ricorda la casa della mia ex moglie…».
Si ricostruisce, nel tempo e con sedute regolari, e si porta a consapevolezza il ricco mondo interiore di ognuno. Che non va perso nonostante i lutti, i problemi e i divorzi. Il percorso può essere lungo, anche di due anni, ma lo scopo è fare ritrovare l’energia a chi ha perso il lavoro o la relazione affettiva per dare il colpo di reni necessario ad affrontare con fiducia un colloquio o un appuntamento sentimentale. Si contribuisce a costruire nuove prospettive. Perché, come ricorda De Gregorio, «sono i sogni e la speranza a farci vivere».
Gilda Lyghounis – OK La salute prima di tutto
Ultimo aggiornamento: 15 dicembre 2010