Ne soffrono quattro, cinque bambini su cento. Soprattutto maschi. Colpiti due o tre volte più delle femmine. Ma non chiamateli malati, per carità.
Direste che attori come Robin Williams, Orlando Bloom, Keira Knightley, Anthony Hopkins o Tom Cruise (GUARDA LA GALLERY), che sulla gestione della parola hanno edificato la carriera, sono dislessici? No, la dislessia non è una patologia.
Ma certo è una presenza tangibile, onerosa. Perché, in pratica, non c’è classe elementare italiana che non conti almeno un bambino dislessico. Un bimbo, cioè, alle prese con l’incapacità di leggere e scrivere in maniera corretta e fluente.
Dislessia. Potrebbe essere la risposta a una raffica di interrogativi che a un certo punto, come tarli, cominciano a tormentare la testa di un genitore: «Perché il mio bambino non sa leggere?», «Perché scrive così male?», «Perché non sa le tabelline?».
«Il problema si manifesta di solito in prima elementare, quando lo scolaro mostra chiare e persistenti difficoltà nella lettura e nella scrittura», spiega Enrico Ghidoni, neurologo al laboratorio di neuropsicologia all’Arcispedale Santa Maria Nuova di Reggio Emilia ma anche vicepresidente dell’Aid, l’Associazione italiana dislessia (nonché papà di un ragazzo dislessico).
Un dislessico commette errori abbastanza caratteristici. «Come confondere le lettere che hanno suoni analoghi (p-b; d-t) o simboli grafici simili (m-n)», continua Ghidoni. «A volte non riesce a imparare le tabelline e certe informazioni in sequenza, come le lettere dell’alfabeto, i giorni della settimana, i mesi dell’anno. Può confondersi nel precisare i rapporti spaziali e temporali (per capirsi: destra-sinistra, o ieri-domani) e faticare a esprimere verbalmente quel che pensa».
Oltre agli errori, che non scompaiono anche dopo molti tentativi di correzione, uno dei segni più evidenti è la lentezza nel fare i compiti e l’impossibilità di lavorare in autonomia. Ma sgomberiamo subito il campo dagli equivoci: i dislessici sono ragazzi intelligenti (il loro quoziente intellettivo è nella media o al di sopra), spesso creativi.
Un cervello che lavora in modo diverso
«La loro è una difficoltà che non dipende da un deficit intellettivo o da un disturbo della vista o dell’udito, né dalle disagiate condizioni della famiglia e neppure da chissà quali turbe psicologiche», rimarca Ghidoni. «Semplicemente, il loro cervello lavora diversamente. E la loro difficoltà nell’apprendere viene spesso male interpretata». Scattano le reazioni dei genitori: «Sei il solito pigro e sbadato!», «Su, datti da fare: non t’impegni abbastanza». Ma scattano anche, nel bimbo, le frustrazioni. Le falle nell’autostima.
Ma la verità è che il cervello funziona in maniera differente. In questi bambini esiste una diversa organizzazione di alcune aree della corteccia cerebrale, che le rende meno adatte alla loro peculiare funzione: quella di collegare simboli grafici e suoni corrispondenti. Succede, così, che la lettura e la scrittura diventano processi lenti. Macchinosi. Sofferti.
«Il problema risulta evidente già alla fine della prima elementare», aggiunge la neuropsichiatra infantile Roberta Penge, della Sapienza di Roma, presidente dell’Aid. «Certe avvisaglie si potrebbero scorgere già prima, per esempio quando il bimbo tarda a parlare, si esprime in maniera confusa o ha difficoltà nel manipolare i suoni nelle rime o nelle filastrocche». Sia chiaro: non che adesso i figli con tali connotati siano tutti dislessici. Soltanto la metà, avverte la specialista, accusa realmente il disturbo.
Solo un ragazzino su quattro
viene aiutato
«Il vero guaio», continua Penge, «è che solo un piccolo dislessico su quattro viene adeguatamente inquadrato. E quindi aiutato».
Dunque, la diagnosi. Il ricorso a specifici test e a specialisti esperti, come il neuropsichiatra infantile, a braccetto con lo psicologo e il logopedista, consente di escludere altre condizioni (la sordità, un problema alla vista, un ritardo mentale) e di cogliere finalmente la faccia del nemico.
Poi, scende in campo la terapia. Con una consapevolezza: poiché non si tratta di una malattia, dalla dislessia non si guarisce. O meglio: non se ne esce mai completamente. Se trattato per tempo, però, il disturbo può essere ben compensato. «Non esiste un metodo unico, anche perché non tutti i dislessici sono uguali», tiene a specificare Stefano Vicari, primario di neuropsichiatria infantile al Bambin Gesù di Roma. «Il punto cruciale è che noi abbiamo di fronte dei bambini con valide risorse intellettive per poter apprendere, ma incapaci di sfruttare quel canale comunicativo che tutti utilizziamo per studiare e imparare: la lettura. Voglio dire: se potessero confrontarsi ogni giorno, a casa e a scuola, non con dei testi da leggere ma con una serie di informazioni da recepire attraverso altri sistemi, be’, i problemi non esisterebbero. Il ruolo della riabilitazione sta proprio nell’avviare questi ragazzini a sfruttare strategie alternative». Che oggi non mancano: esistono software in grado di leggere al posto del bimbo, cd rom multimediali che consentono di apprendere senza la lettura, audiolibri (testi preregistrati, che permettono l’apprendimento attraverso l’ascolto) e pure favole tridimensionali, messe a punto dall’Istituto di ortofonologia di Roma: fiabe da ascoltare in cuffia, che costruiscono non visivamente ma acusticamente un mondo virtuale che avvolge il ragazzo.
Insomma, la terapia non deve puntare a riproporre quell’unica prestazione in cui il bambino mostra insuccesso: la lettura. «Ed ecco perché il mio primo suggerimento ai genitori», commenta Vicari, «è proprio di non spingere il figlio dislessico a leggere a tutti i costi».
Il fatto che molti dislessici diventino persone di successo, che eccellono nei campi più disparati, dimostra che si può convivere con la dislessia e raggiungere brillanti risultati nel proprio lavoro. Winston Churchill, John Kennedy, Walt Disney e Albert Einstein insegnano. Scusate se è poco.
Edoardo Rosati – OK La salute prima di tutto
Ultimo aggiornamento: 14 ottobre 2009