Quarantadue giorni in cui ero morto. In cui ero vivo. In cui ero non so bene cosa e non so bene dove. Comunque adesso sono qua, con la voglia e la forza di vivere dieci vite.
Ricordo bene quel lunedì 9 novembre del 1992: avevo dieci anni ed ero a scuola, frequentavo la prima media a Roma, quartiere Eur. Stavo ripensando ai tre gol da urlo messi a segno il giorno prima, dal momento che il pallone era la mia grande passione. L’altra passione, quella per la musica, trovava le radici in famiglia, visto che mio padre Pino era il manager di Fiorella Mannoia e di Antonello Venditti.
Improvvisamente, per me è calato il buio. Al Cto della Garbatella, centro specializzato in neurochirurgia, hanno appurato che avevo avuto un’emorragia cerebrale dovuta a una malformazione arterovenosa congenita del cervello e che ero entrato in coma. L’équipe che mi seguiva era divisa, tanti lo giudicavano irreversibile. C’è stato chi ha detto a mio padre: «Meglio che suo figlio muoia. Se sopravvive, resterà un vegetale».
In coma ci sono rimasto per 42 giorni. Io non c’ero, ma mia mamma Gerarda continuava lo stesso a organizzare per me una vita finta. Cioè: in casa interpretava lei il mio ruolo, si lavava, si vestiva, si sedeva a tavola, registrando ogni rumore domestico. Anche a scuola i professori avevano il registratore sulla cattedra e fingevano di interrogarmi, lo stesso succedeva sul campo di calcio: il mister si rivolgeva a me come se io fossi stato lì.
Ogni giorno la mamma mi faceva sentire la cassetta della mia ipotetica giornata precedente. Se sentivo? Nel mio cervello c’erano dei lampi, di pensieri, di ricordi, di suoni. Continuavo a chiedermi, sprofondato nel nulla: «Gianluca, ma che sarà successo?». Passavo dal dubbio di essere morto a quello che mi avessero rapito gli extraterrestri, alla convinzione di essere finito dentro a un incubo.
Ecco, ho in testa il paragone di un’anima imprigionata in una statua. Il 21 dicembre mia madre aveva messo nel registratore Gli anni ’80, una raccolta dei successi di Venditti. Il ritornello di una canzone faceva: «Dimmelo tu cos’è» e con un filo di fiato mi sono ritrovato a cantarlo anch’io. Ero fuori dal coma. Dopo una pausa, ho intonato il seguito: «Che cos’è che ti prende alle spalle e non ti fa tornare indietro». E io indietro, nel limbo, non ci sono più tornato.
Però anche il paradiso era lontano: da bambino sognavo di diventare un mago del pallone, invece sono rimasto semiparalizzato su una sedia a rotelle per quattro anni. E la riabilitazione, sofferta e durissima, è continuata per altri sei. Il che vuol dire che mi sono perso tutte le cose che gli adolescenti hanno e a volte schifano: le corse in moto, la scoperta del mondo, i primi amori.
Dalla disperazione mi ha tirato fuori la musica: per salvarmi, ho continuato ad ascoltarla, a suonare, a cantare. Oggi, a 28 anni, ho appena inciso Un giorno di dicembre, il mio album d’ esordio, con l’ arrangiamento del maestro Mario Simeoli, e ho anche scritto un libro con lo stesso titolo. Poi, grazie all’idea di Lucio Tunis, un professore di musica di Cagliari, sto girando per le scuole a raccontare la mia storia e a spiegare ai ragazzi di non buttare via la vita, il dono più importante. Ho i miei genitori, ho la ragazza, ho un futuro davanti. Soprattutto ho la mia musica, che mi ha salvato la vita e che da allora non ha mai smesso di farlo.
Gianluca Sciortino, 28 anni, Roma
(testimonianza raccolta da Paola Tiscornia)
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