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Rischiavo di diventare cieco: un farmaco mi ha rimesso in pista

Ero al massimo della forma e della carriera: negli ultimi quattro anni avevo vinto quattro titoli italiani consecutivi nei 100 metri; ai Giochi Olimpici di Sydney avevo conquistato la finale nella staffetta 4x100, una grande soddisfazione per l'atletica italiana.

Ero al massimo della forma e della carriera: negli ultimi quattro anni avevo vinto quattro titoli italiani consecutivi nei 100 metri; ai Giochi Olimpici di Sydney avevo conquistato la finale nella staffetta 4×100, una grande soddisfazione per l’atletica italiana. E quell’autunno mi stavo preparando per le Olimpiadi di Atene del 2004.

Poi, quella febbre misteriosa, che non accennava a scendere. I dottori (e per primo mio padre, che è medico di famiglia) non riuscivano a dare una spiegazione. Hanno provato con un’iniezione di penicillina, ma ho avuto una reazione allergica violentissima: choc anafilattico, al pronto soccorso mi hanno salvato per un pelo. Nei mesi seguenti, alla febbre si sono aggiunti altri problemi: ulcere orali, noduli ai vasi sanguigni delle gambe, grande senso di spossatezza.

Gruppo San Donato

Soprattutto, la vista calava di giorno in giorno. I contorni delle cose diventavano sempre più sfocati, fino a confondersi totalmente, e nell’estate 2004 il mondo si era ridotto a un insieme caotico di luci e ombre. Intanto dalla tv mi arrivava l’eco, lontana, dei Giochi di Atene. Cambiavo canale.

Ma non mi sono dato per vinto. La prima diagnosi è arrivata proprio quell’estate di sette anni fa, ed è stata un’autodiagnosi. Mi sono messo davanti al computer con la mia fidanzata, Manuela (ora mia moglie) e abbiamo cominciato a scrivere su Google tutti i miei sintomi.

Allora non vedevo più niente, quindi io dettavo e lei scriveva, poi a voce alta mi leggeva quello che trovava. Ed ecco che dalla voce di Manuela ho sentito per la prima volta il nome della mia malattia: sindrome di Behçet.

Sono andato subito a Milano per fare degli esami che hanno confermato l’ipotesi. Mesi e mesi per arrivare a capire quale fosse il male che mi stava annientando; dargli un nome mi sembrava già un grande traguardo. Ma gli ostacoli da superare erano ancora tanti. La malattia di Behçet, infatti, è rara e poco conosciuta. E a Milano i medici mi avevano detto che non esisteva una cura in grado di arrestarla nel suo complesso.

Era possibile solo agire, con diversi mezzi, sui vari sintomi. E in ogni caso si trattava di una malattia cronica destinata ad accompagnarmi per sempre, in un susseguirsi imprevedibile di fasi più e meno acute. Quando ho cominciato la prima terapia, a base di cortisone e di immunosoppressori, ho subito notato dei miglioramenti. Ma dopo la gioia iniziale mi sono reso conto che non potevo accontentarmi di quei piccoli progressi: avevo solo 27 anni e volevo riprendermi la mia vita.

Mi sono messo di nuovo su internet e ho scoperto Simba, un’associazione dedicata proprio alla malattia di Behçet. Il segretario nazionale, Alessandra Del Bianco, mi ha messo in contatto con Ignazio Olivieri, direttore del dipartimento di reumatologia di Potenza.

Quell’incontro è stato la mia salvezza. Olivieri mi ha proposto un farmaco biologico, infliximab, che era ancora sperimentale ma la cui efficacia era supportata da numerosi studi e da ottimi risultati su altri pazienti. Non ci ho pensato due volte: volevo tornare a correre e se avessi continuato la cura precedente non avrei mai più potuto gareggiare, perché il cortisone è considerato una sostanza dopante.

Con entusiasmo, ho cominciato la nuova terapia a gennaio 2005 e, come per miracolo, in poco tempo ho ripreso a vedere perfettamente, le ulcere sono scomparse, ho ritrovato la voglia di vivere. Con grande tenacia ho ricominciato ad allenarmi. Ed è venuto il giorno, indimenticabile, in cui sono tornato in pista.

È accaduto nella mia Catania, a maggio, con tanti amici a guardarmi. La mia vittoria più grande! A gennaio 2006 ho vinto per la nona volta il titolo italiano nei 60 metri indoor. E da quel momento non mi sono più fermato. L’esperienza della malattia nella mia vita l’ho sempre vista come «la mia atletica oltre l’atletica»: la lotta contro la sindrome di Behçet è stata la dimostrazione estrema di un carattere e di una determinazione cresciuti e coltivati sulle piste. La speranza è un rischio che bisogna correre, scrisse un autore francese. E io l’ho corsa con la grinta e la rabbia di un velocista.

Francesco Scuderi, 33 anni, Catania (testimonianza raccolta da Anna Guida)

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