«La sera ceno con qualcuno e il giorno dopo, se l’incontro, non so chi sia», racconta Luciano De Crescenzo. «Non lo saluto e quello pensa: ma guarda ‘stu fetente e’ De Crescenzo. Non sono rincoglionito per l’età. La colpa è di un disturbo: le facce non mi dicono niente, non le riconosco».
Ecco la confessione dello scrittore a OK e, a seguire, un focus medico sulla prosopoagnosia, l’incapacità di riconoscere i volti.
«Era una classica cena partenopea, l’aria doce doce e uno sciame di belle signore ‘nu poco acchittate che mi facevano festa. Io ho un debole per quelle mie lettrici che vengono alle presentazioni dei libri ben messe come per un grande evento.
Mi fanno tenerezza, specie se sono napoletane: cerco di accontentarle con una dedica, una parola in più. Mi voltai e, guardando negli occhi la mia interlocutrice, le tesi la mano: “Piacere, De Crescenzo”. E lei, smarrita: “Lucia’, sono io, so’ Clara”. In effetti, guardandola con attenzione, riconobbi la mia unica sorella. Colpa della prosopoagnosia che, stando al greco (prosopos significa faccia, agnosia vuol dire non conoscenza), è il disturbo che non ti fa riconoscere dai soli tratti somatici le persone. A me capita che la sera sto banchettando con qualcuno e il giorno dopo, se l’incontro in treno, non so chi sia e non lo saluto. E quello magari pensa: “Ma guarda ‘stu fetente e’ De Crescenzo. Ma che boria; ma chi si crede di essere?”. Situazioni paradossali.
Come quando, a casa di Lina Wertmuller, la regista, seduto a cena mi rivolsi amabilmente alla signora che avevo di fianco: “Permette che le versi un po’ di vino?”. E lei: “Ma che fai, Luciano, mi dai del lei?”. Ebbi un sussulto.
Dalla voce calda, avvolgente, avevo riconosciuto Sophia Loren, la cara amica con la quale ho fatto anche due film. Che strano, la memoria acustica funziona: l’archivio dei suoni nella mia mente mi restituisce correttamente le persone alle quali le voci appartengono.
Con le facce, invece, sono una frana e a lume di naso ipotizzo che ci siano zone diverse del cervello nelle quali sono custoditi volti e suoni delle voci. Certe volte mi viene il dubbio. Forse, semplicemente, io faccio una vita convulsa, sovraccarica d’incontri. Ogni sera esco e vedo decine e decine di persone. Tanti mi fermano per strada. Mettiamoci ancora i giornalisti, radio, tivù. Giro come una trottola da un capo all’altro d’Italia. È normale, mi dico, che io dimentichi le facce. Come uno che va allo stadio e si gode la partita in mezzo a 70mila tifosi. Quando torna a casa se li ricorda tutti?
La prosopoagnosia s’è aggravata negli ultimi anni. Tant’è vero che porto in tasca un bigliettino da visita che reca la seguente scritta: “Mi spiace non averti salutato subito, ma sono affetto da una menomazione fisica, detta prosopoagnosia, che consiste nell’impossibilità di riconoscere le persone dai soli tratti somatici, pur riconoscendole dal suono della voce”. Qualcuno può pure chiamare la mia défaillance rincoglionimento senile. Non lo so.
Però ci sono alcune cose che mi fanno riflettere. Quando lavoravo all’Ibm, grande azienda dinamica, con migliaia di dipendenti, portavo sul bavero della giacca una targhetta con incisi nome e cognome. In occasione dei meeting noi dirigenti eravamo convocati mezz’ora prima dell’inizio del congresso per la cosiddetta pratica del riconoscimento. Ovvero i sette, otto capi si sedevano insieme davanti a un piccolo schermo che scandiva le fotografie delle persone più importanti che di lì a breve avremmo incontrato. Si voleva evitare che facessimo brutte figure.
Voi capite, la gente si offende
Ai vertici si comprendeva perfettamente quanto sia importante il riconoscersi: implica una valenza sociale. Se io stringo la mano a qualcuno e mostro disorientamento, non so che pesci prendere, è come se dicessi al mio interlocutore: tu non conti, tu sei un niente, io ti cancello. La vita anni fa era fatta di poche relazioni. Oggi è fitta di rapporti e bisogna attrezzarsi: a meno che uno si rifugi nell’anonimato di Internet, dove non contano le facce ma i soprannomi.
Grillo parlante chatta con Fata turchina e tutto fila a meraviglia fino al giorno nel quale decidono d’incontrarsi in un bar. “Maronna mia, che faccia”, pensa lui o lei all’agognato appuntamento e tutto il mondo crolla, pare impossibile che a quei tratti somatici corrispondano quelle e mail così intense e romantiche.
Io mi attrezzo alla prosopoagnosia distribuendo a piene mani il mio biglietto da visita, cercando di annotare qualcosa sulle persone che più mi colpiscono o con le quali avrò a che fare, prendendo l’aspirinetta che fa sempre bene. Come il classico mezzo bicchiere di vino a pranzo e a cena che, dilatando moderatamente le arterie, consente loro di far ginnastica (me l’ha detto il mio medico curante).
Per fortuna esistono le pillole
Io sono un paziente paziente. Quando una dottoressa mi consigliò di fare l’esame della glicemia e scoprii che avevo 300, corsi subito ai ripari. Oggi, con due pasticche al giorno, ho 120. Altre due pillole le prendo per tenere a bada la pressione. Diciamoci la verità, nel secolo scorso io sarei già morto a causa del diabete e dell’ipertensione.
Invece nell’Italia contemporanea, con le diagnosi preventive e i progressi dell’industria farmaceutica, sono un gagliardo signore, ancora belloccio. Io proporrei di abolire l’Inno di Mameli e di sostituirlo con la canzone: “Pigliate ‘na pastiglia, sient’ a me”. Viviamo grazie alle pillole. Certo, ci metto del mio. Ho un buon corredo genetico.
Io prendo il Viagra
Da ragazzo, a 16 anni, per amore di Giuliana mi misi in mente di battere Mimì, che correva gli 800 metri e la corteggiava. Ci riuscii. Ho fatto tanto sport, a tavola sono parco, non fumo, niente superalcolici, non so cosa siano le droghe. Le donne invece… Sì, anche in vecchiaia. Confesso che ho preso qualche volta il Viagra e mi sono trovato bene, anche se credo che abbia soprattutto un effetto psicologico, di suggestione: il sesso nasce nel cervello.
Però mi vergogno di andare dal farmacista ad accattare il Viagra e ci mando il mio giovane segretario Eddy. “Lucia’, digli a Eddy di prendere qualche scatola anche per me”, mi chiedono al telefono due o tre amici, di quelli noti. Io rido, acconsento e così il mio segretario fa scorte in quantità industriale e la farmacista s’è convinta che sia un mandrillo insaziabile.
Ricordo quando andai a trovare Norberto Bobbio nell’ultimo scorcio di vita. Si muoveva in un girello, assistito da due badanti. Mi fece un’impressione terribile. Qualche volta teorizzo il suicidio, perché un filosofo che non si suicida è una schifezza di maestro. Spero con tutto il cuore di essere ammesso in Paradiso. Onestamente dovrei farcela. Ma che succede se poi lassù non riconosco i vecchi compagni di scuola?»
Luciano De Crescenzo (testo raccolto da Antonella Amendola nell’agosto 2005 per OK La salute prima di tutto)
L’APPROFONDIMENTO
SULLA PROSOPOAGNOSIA
«La prosopoagnosia è l’incapacità di riconoscere i volti, anche familiari, in base alla sola fisionomia», spiega Ubaldo Bonuccelli (puoi chiedergli un consulto), professore di neurologia all’Università di Pisa . «Il paziente può non distinguere il coniuge o scambiare il figlio per un caro amico, o addirittura non identificare la sua stessa immagine allo specchio. La patologia rientra nei disturbi cerebrali detti agnosie, ovvero difficoltà o incapacità a riconoscere uno stimolo presentato attraverso un determinato canale sensoriale (tatto, udito, vista). Il canale però è integro. Infatti, il soggetto agnosico visivo, anche se confonde cose o figure, ci vede benissimo. Il deficit è causato da un danno cerebrale. Se è lesa la corteccia occipitale temporale di sinistra, si parla di prosopoagnosia associativa: il paziente è in grado di compensare il disturbo aiutandosi con strategie alternative, identificando le persone, per esempio, in base alla voce. Una forma più grave si ha in presenza di una lesione nella corteccia temporo occipitale bilaterale: si parla allora di prosopoagnosia percettiva, che si accompagna ad acromatopsia, l’incapacità di riconoscere i colori (da non confondere col daltonismo)».
Le cause del danno cerebrale? Molteplici. «Trauma cranico, piccola lesione ischemica in quella zona del cervello, encefaliti, a volte un tumore», continua Bonuccelli. «Quanto ai rimedi, si cura la causa che ha provocato il disturbo. Se all’origine c’è un trauma cranico, non c’è molto da fare, ma se si tratta di un disturbo circolatorio, si impiegano farmaci che mantengono il sangue più fluido».