La copertina che il settimanale Time ha recentemente dedicato ai test genetici ha rianimato anche in Italia il dibattito sui limiti della medicina predittiva: è giusto o no conoscere il futuro che è scritto nei geni? E fino a che punto, in realtà, la genetica è in grado di farlo?
La decodifica del Dna rappresenta un’enorme rivoluzione e apre la strada alla medicina predittiva che, dall’analisi alla cura dei sintomi, passa allo studio del rischio per evitare che la malattia stessa si manifesti. Occorre innanzitutto tracciare i confini di questo nuovo approccio: non siamo certamente nell’era della profezia genetica, e dunque la possibilità di intervenire sul Dna non deve spaventarci, ma nemmeno illuderci.
Oggi esistono sostanzialmente due scenari: il test genetico ci può svelare una patologia su cui si può intervenire con gli stili di vita o la diagnosi precoce, oppure ci può fornire informazioni che non possiamo usare perché non abbiamo mezzi e conoscenze per intervenire.
Rientra nel primo caso la diagnosi prenatale (leggi anche: gli esami prenatale per la sindrome di Down): gli esami del Dna embrionale permettono ai genitori, portatori di una malattia ereditaria, di sapere se hanno trasmesso il gene malato al figlio e, in una procedura di fecondazione assistita, di decidere se impiantare o meno quell’embrione nell’utero.
Lo stesso avviene con villocentesi e amniocentesi, in cui l’analisi dei villi coriali nel primo caso o del liquido amniotico nel secondo permette di diagnosticare se il nascituro presenta un’alterazione genica, causa di una malattia. Ci sono, inoltre, malattie rilevabili dal test del Dna, come la fenilchetonuria, per le quali si possono mettere in atto azioni mirate: in questo caso, adottare regimi alimentari appropriati.
Tuttavia, molte delle informazioni che otteniamo oggi dall’analisi del Dna non rivelano un dato certo, ma piuttosto un maggiore rischio che la persona sviluppi una certa patologia, in un futuro indefinito. È questo il caso, per esempio, della mutazione del gene Brca, che indica una predisposizione al tumore del seno. Predisposizione non significa malattia: nel 50% delle donne con il gene mutato il tumore non si manifesterà mai. Che fare, allora? Per il carcinoma del seno la conoscenza del rischio permette una protezione maggiore, perché per questo tumore esistono strumenti di diagnosi precocissima (guarda il calendario degli screening oncologici).
Tuttavia ci sono malattie per cui alla valutazione di una predisposizione non corrisponde alcun intervento preventivo possibile, né una cura efficace. Questo è il secondo scenario scientificamente ed eticamente molto complesso. Conoscere il proprio futuro può essere demotivante o anche trascinare nella più profonda depressione, se non si hanno gli strumenti per modificarlo. Il limite fra il sapere e il non sapere, e il come sapere, deve allora essere considerato per ogni persona, in base alla sua età, al suo carattere e al suo progetto di vita.
Per questo mi preoccupa la proliferazione dei centri di analisi del Dna e l’accesso senza regole via web (leggi: Veronesi, non fidatevi dei test su internet). Il test del Dna non è un gioco o una curiosità, ma uno strumento della scienza ancora in evoluzione, a cui avvicinarsi con una motivazione seria di salute e con l’aiuto di un medico.
Umberto Veronesi – OK Salute e benessere