L’avarizia è diffusissima. E non ha nulla a che fare con la mancanza di soldi e con la necessità oggettiva di risparmiare. È molto difficile che un povero sia tirchio, mentre la taccagneria dilaga nelle classi agiate e si sposa egregiamente con l’ingordigia.
Ma come, si dirà, proprio le persone che hanno di più, e che di più potrebbero dare, trattengono per sé? Ebbene, è così. Non si tratta di cattiveria quanto di una forma di insensibilità al bisogno altrui.
L’avaro vede, ma non intende: non registra il dolore del mendicante all’angolo della strada, non si accorge della delusione degli amici feriti dalla sua scarsissima disponibilità. D’altra parte, come potrebbe, dal momento che ogni giorno depriva se stesso senza accorgersene?
I gradi dell’avarizia. Ovviamente ci sono gradi diversi del vizio. Niente di strano se si spende con misura, con attenzione, ma senza negare a se stessi e agli altri, piaceri e comodità: siamo nella normalità, ognuno sceglie come preferisce vivere, se in maniera più o meno spartana. Ma poi c’è anche chi, dietro a una filosofia dell’austerità contrabbandata come valore, cerca di nascondere la propria grettezza e moltiplica i disagi, arrivando talvolta alla perversione di andare perfino contro i propri bisogni primari. Esistono persone con un nutrito conto in banca che patiscono il freddo (perché il riscaldamento costa), che mangiano poco e male (il conto del supermercato è una sofferenza), che si avvelenano (peccato buttare un alimento o un farmaco solo perché scaduti), che non si curano (per non affrontare le parcelle del medico), e così via.
Tale padre, tale figlio. Ma come nasce questo problema? Ci sono diverse teorie che danno rilievo a un imprinting familiare: crescere con genitori troppo parsimoniosi porta spesso a seguirne l’esempio, a non tradire una filosofia e una consuetudine di famiglia. Anche se c’è chi si ribella e si trasforma in uno spendaccione, così i figli di scialacquatori possono diventare per reazione attentissimi allo spicciolo.
La teoria di Freud: l’avaro soffre di stitichezza. «Merita una riflessione il pensiero di Sigmund Freud», dice Alberto Maria Comazzi, docente alla scuola di specialità in psicologia clinica dell’Università degli studi di Milano. «Per il padre della psicoanalisi, lo sviluppo del bambino è diviso in varie fasi: la fase orale, in cui predomina il piacere che proviene dalla bocca, totale nel momento dell’allattamento; quella anale, il periodo il cui il piccolo impara l’uso del vasino; quella genitale, che corrisponde all’inizio dell’organizzazione adulta della personalità. Il seme dell’avarizia è nella fase anale, quando il piccolo impara che, controllando il corpo, può far contenta o meno la mamma, quell’onnipotente oggetto d’amore da cui dipende per il suo nutrimento sia fisico sia affettivo, e da cui teme di essere abbandonato. Scopre che l’attività del dare o del trattenere gli regala un certo potere sulle emozioni degli adulti e nello stesso tempo procura anche un certo piacere».
Se il bambino è poco amato e rassicurato, con una madre anaffettiva e nel contempo attenta alle regole e alla disciplina, può diventare esageratamente dipendente da questo gioco del controllo.
«In altre parole, dietro la tirchieria c’è un’enorme, inconfessata insicurezza negli affetti fondamentali, una ferita profondissima, antica», continua Comazzi. «Come spesso accade, dietro alle manifestazioni umane meno piacevoli, quelle che saremmo d’istinto portati a condannare, c’è una sofferenza umanissima che gli specialisti devono capire, se vogliono provare a ricucire quella ferita. Qualcuno forse esprimerà incredulità, pensando che la teoria delle fasi del bambino sia solo una costruzione teorica un po’artificiosa. Niente vieta di spiegare l’avarizia direttamente come un sentimento di patologica insicurezza. Eppure io richiamo l’attenzione sul sintomo psicosomatico spesso presente negli avari: la stipsi».
La mamma del tirchio, onnipotente. Inoltre, la teoria freudiana rivela anche un’altra intuizione per spiegare la psicologia del tirchio. «Il più delle volte dietro un tirchio c’è una madre che magari non è capace di amare, ma sa benissimo controllare», dice Comazzi. «Già, onnipotente e imperversante. Ecco allora che il quadro si compone, e si vede come spesso siano avari quegli uomini che non si sposano per non condividere con una compagna gli averi, e anche perché non riescono a sfuggire alla mamma».
Più avari che avare. Si è parlato di avarizia quasi sempre al maschile: per le dinamiche di relazione con la madre è un vizio presente molto più negli uomini. Quando però colpisce le donne, è terribile. «Ricordo una paziente che aveva messo il lucchetto al frigo per impedire che i suoi figli si servissero liberamente di cibo», dice Comazzi.
Emma Chiaia – OK La salute prima di tutto
Ultimo aggiornamento: 23 febbraio 1010