Francobolli, pupazzetti, bottiglie. Collezioni banali? «No, io dico che non è banale corteggiare un certo esemplare con tutte le energie, fare un viaggio alla ricerca del francobollo raro in quel negozio di quella città, andare a caccia per ore su Google dell’informazione che ti permette di chiudere lo studio per la tua raccolta», spiega Stefano Pallanti (puoi chiedergli un consulto), professore di psichiatria all’Università di Firenze. «Ho scoperto che in tedesco le persone che non risparmiano sacrifici per ottenere quanto desiderano si chiamano Liebhaber, amatori. Io sono un amatore. E c’è il libro di uno scrittore inglese che sostiene una tesi interessante: ogni collezione ha a che fare con il sesso».
Quel libro è il Sex Collectors. L’ autore, Geoff Nicholson, attraverso una serie di interviste a collezionisti sostiene che sia connessa direttamente alla sfera sessuale l’attività di comprare, vendere, scambiare, catalogare, accumulare qualsiasi cosa, dai libri alle monete, dalle bottigliette di alcolici ai nani da giardino.
È la teoria psicoanalitica a spiegarlo: raccogliere oggetti, come fanno ben sette milioni di italiani, è un’espressione della fase anale, chiamata in causa quando si parla di controllo e di conservazione, perché nel bambino coincide con la prima esperienza di dominio dello sfintere.
La storia di una passione
che diventa un’ossessione
Sigmund Freud doveva sapere bene come la sua passione di catalogare reperti archeologici (ne possedeva circa duemila) appagasse piaceri erotici dell’infanzia: collezionare, in fondo, è creare un piccolo mondo dove esercitare una padronanza e una gestione totali. Questa è solo una delle interpretazioni del fenomeno. Che talvolta è la storia di una passione diventata un’ossessione.
Si comincia per curiosità: chiunque acquista qualcosa di cui non ha bisogno, un soprammobile, un souvenir, un gadget. L’avventura erotica parte quando nasce il bisogno di vedere le diverse varianti della cosa acquistata e, subito dopo, l’impulso a possederle.
L’articolo non importa: possono essere libri antichi, tartarughine di ceramica, flaconi di profumo, macchinine d’epoca o riviste porno. Una caratteristica delle raccolte? La loro inutilità. Anche se il prodotto in origine aveva un qualche possibile utilizzo, non è certo questo che attira l’amatore. Chi accumula bambole non ci gioca. Chi fa incetta di cartoline non le spedisce coi suoi saluti agli amici. Lo sfruttamento comporterebbe un deterioramento dell’oggetto, la perdita della sua perfezione originaria.
Al contrario, il collezionista è un abile conservatore, che dedica alla sua serie cure amorevoli. All’inizio è un semplice hobby. Poi può trasformarsi in un’ossessione. La spinta interiore aumenta: si vogliono tutte le varianti possibili di quel determinato oggetto. Si bramerebbe tutte le monete antiche del mondo o tutti i modellini di velieri che siano mai stati prodotti.
Gli acquisti si susseguono, accompagnati da sentimenti contrastanti. C’è piacere ogni volta che ci si impadronisce di un nuovo elemento. Ma subito arriva l’ansia di fronte alla consapevolezza che, anche se la collezione cresce, sono più i pezzi che mancano di quelli presenti.
«Molti mi chiedono quale sia il limite tra normalità e patologia, tra un eccentrico passatempo e un pericoloso fanatismo. Il confine è spesso sottile, però il criterio è chiaro: un’innocua fissazione non complica né tanto meno rovina la vita», spiega Pallanti. «Prendiamo, per esempio, l’aspetto economico, che per gli oggetti preziosi non è trascurabile. Tutto bene fino a che si spende il superfluo, ma che accade quando si pesca dalle risorse necessarie alla sussistenza?».
E il problema costi può presentarsi in collezioni in apparenza più modeste. Pure per chi fa il pieno di banali scatole di fiammiferi arriva il momento in cui ci si trova dinanzi alla rarità che richiede un esborso superiore alle proprie finanze.
A volte ci si può rovinare la vita
È come per il gioco d’azzardo. C’è chi stabilisce di puntare non oltre una certa cifra e, persa quella, si ferma senza problemi. Ma per altre persone, più fragili e predisposte a diverse forme di dipendenza, un tale autocontrollo è impossibile, perché il gusto per l’alea ha preso la mano.
Bisogna poi guardare all’impiego di tempo e di energie: un hobby assorbe in modo piacevole il tempo libero. Ma cosa succede quando si passano ore e ore su Internet per contattare altri collezionisti di tutto il mondo o quando non si può perdere un mercatino neppure il giorno di un’occasione familiare importante?
«Siamo nella patologia quando si scivola verso un’ossessione che invade tutto, porta a trascurare lavoro e affetti, ad abbandonare ogni altro interesse per mettersi in cerca di un oggetto ritenuto imperdibile», dice Pallanti. Esiste pure un problema di spazio. Le raccolte occupano posto in casa e talvolta interferiscono con la vita quotidiana dei suoi abitanti.
Qualcuno rovista nei cassonetti,
qualcuno ruba
È stato recentemente classificato un nuovo disturbo del comportamento, l’hoarding collective behaviour (si può tradurre con comportamento di accumulo collezionismo). Chi ne soffre non può buttare via nemmeno un numero di un giornale: negli anni, al ritmo di una copia al giorno, si trova la casa invasa!
Oppure c’è chi vorrebbe possedere tutte le lattine di qualche nota bibita: in una forma patologica, non ci si limita a quelle che si possono acquistare, ma si arriva a rovistare nei cassonetti alla ricerca di vuoti… Facile capire come i problemi di spazio, e di igiene, diventino presto ingestibili.
Questo bisogno compulsivo può portare anche a comportamenti antisociali. Qualcuno arriva persino a rubare per arricchire la propria collezione: si va dal furtarello degli oggettini d’albergo (per chi ha questa mania) ad atti più seri.
Per esempio la rivista americana The New Yorker ha parlato di un famoso ornitologo, Richard Meinertzhagen, uno scienziato stimatissimo dei primi del ‘900, che pare sottraesse esemplari di uccelli imbalsamati da collezioni altrui per arricchire la propria.
Si accumula anche per distinguersi dagli altri
Ora, la psicoanalisi, di matrice freudiana, tira in ballo una forma di erotismo ritualizzato nel piacere di possedere e conservare. Ma ci sono anche altre letture e spiegazioni. Per esempio, una motivazione molto profonda può essere il desiderio di distinguersi da tutti gli altri.
Ci sono tanti individui che nella vita non hanno realizzato grandi cose, che si sentono un po’ sopraffatti dal proprio anonimato. Però magari qualcuno, anche se non è ricco, ha messo insieme una grande collezione, raccogliendo per esempio migliaia di tappi della Coca Cola. È conosciuto per quella, ne può parlare, ha qualcosa da mostrare agli amici per suscitare stupore e curiosità.
Ci sono poi uomini più facoltosi, che posseggono raccolte di oggetti antichi o preziosi e organizzano visite guidate in casa propria, come fosse un museo. E c’ è il pensiero che, alla propria morte, si donerà il tutto a una fondazione, che metterà una bella targa…
«Attenzione a non confondersi con quello che io chiamo lo pseudocollezionismo, che è per esempio quello dei mecenati con una propria raccolta di opere d’arte: lo fanno per passione, certo, ma è anche il loro lavoro, e dietro c’è il più delle volte un preciso ragionamento economico», avverte Pallanti. Il vero collezionista invece spende (a volte anche tanto) e non guadagna.
È possibile guarire dall’ ossessione dell’accumulo? «Sì. Certo, non proporrei una cura a chi riesce a rimanere nei limiti di una passione positiva, anche se impegnativa», chiarisce l’esperto. «Ma quando è la collezione a possedere l’uomo e non viceversa, una terapia è possibile a patto che sia la persona stessa a voler guarire».
La cura può essere farmacologica. Oggi si usano i medicinali chiamati Ssri (in particolare la paroxetina): la loro efficacia è minore rispetto a quella che hanno negli altri disturbi ossessivo compulsivi, ma la terapia ha buoni risultati, specie nelle forme lievi. Il meccanismo d’azione è il potenziamento dei sistemi che regolano la serotonina, la molecola che nel corpo governa il buonumore. Il risultato è una diminuzione dell’ansie e dell’ideazione ossessiva. Il trattamento dura qualche anno, con controlli periodici.
Chi non ama i farmaci e ha la possibilità di lavorare su di sé può scegliere la psicoterapia, orientandosi su quella di indirizzo cognitivo comportamentale, che deve comunque seguire modalità specifiche per questo disturbo. Il ritmo è di una/due sedute alla settimana, per un anno o più. L’obiettivo è anche qui smontare le dinamiche ossessive e ridurre l’ansia.
I risultati, sia della cura farmacologica sia della psicoterapia, fatte singolarmente, sono buoni (dipendono ovviamente dalla serietà del problema e dalla collaborazione del diretto interessato). Con i due approcci portati avanti contemporaneamente i tempi si abbreviano.
Emma Chiaia – OK La salute prima di tutto
Ultimo aggiornamento: 27 agosto 2010