Personalmente considero l’ampio sottanone maschile, altrimenti noto come caftano, il capo di abbigliamento più importante del guardaroba domestico di un gentiluomo. Insieme alla giacca da camera (che altri chiamerebbero vestaglia), possibilmente di ricco e morbido velluto verde. Magari adornata dal proprio blasone familiare e nei cui tasconi affonda una pipa e una copia del Times. In effetti, si è un po’ persa l’attenzione a un minimo di decoro personale nell’abbigliamento in casa. Dove improbabili tute semisintetiche avvolgono ventri non più tartarugheschi di signori d’età e scoloriti pigiamoni di pile, forse un tempo di colori pastello, i fianchi tutt’altro che sinuosi delle loro compagne.
Ma questo articolo non è dedicato alla vibrante protesta del sessuologo (che pur avrebbe il suo perché) contro le sciatterie casalinghe, contro bigodini e canottiere della salute, contro i volti impiastricciati dalla maschera e i calzini a mezz’asta. Al contrario, penso che sia giustissimo trovare un luogo dove abbandonare ogni travestimento e apparenza sociale per starsene rilassati in compagnia delle persone amate. Che tutto farebbero fuorché (perlomeno apparentemente) giudicarci. Anche se credo sia sempre utile, se non necessario, un minimo di decoro e di attenzione sia per gli occhi di chi ci guarda, sia per lo specchio.
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La “gonna” maschile
La lunga veste maschile è stata ereditata dalla tradizione mediorientale, candida o di stoffa colorata. Talvolta a righe, che scende quasi ai piedi. Alle volte semplicemente scollata ovvero chiusa sul davanti con una lunga fila di bottoni, con colletto alla coreana come fanno nella penisola arabica. Oppure adornata di cappuccio, come succede nel Magreb, con maniche assai lunghe e larghe. Ecco, questo capo può costituire un dignitosissimo compromesso tra esigenza di comodità, praticità, eleganza, ricercatezza, pudicizia e decoro.
Il caftano, in effetti, per qualche secolo a partire dal XIII secolo, fu portato anche da molti europei. Come russi, polacchi, ed ebrei. Per non parlare delle tuniche utilizzate in tutta l’antichità. Poi, con la rivoluzione industriale borghese, che impose ai maschi l’accoppiata giacca-pantaloni, tendenzialmente scuri, quasi un’universale divisa che ha subìto nel corso degli ultimi tre secoli minimi cambiamenti, dimenticammo il caftano un po’ tutti.
Il bisogno di confermare la virilità con l’abbigliamento
Mi rendo conto che questa ampia veste maschile non sia il massimo della praticità se si deve guidare l’auto o pedalare in bicicletta. Ma non ha senso non usarla in casa con la scusa che non appartenga alla nostra cultura. Anche il cappellino da baseball non è caratteristico dell’abbigliamento di noi latini più di quanto siano autoctoni i caschi di penne colorate degli indiani dei film western. Eppure, nonostante la bruttezza di questo banalissimo e inadeguatissimo oggetto, il cappellino con lunga visiera, curva o, come ama la cultura hip-hop, rigida, è uno dei capi di abbigliamento più usati dai maschi dei cinque continenti. Con buona pace dei fedora, dei lobbia e dei panama, ormai, ahimè, dimenticati dai più. Viene da chiedersi perché. Una risposta ovvia è da cercarsi nell’egemonia che il modello nordamericano ancora esercita su molte scelte di stile di vita. Nel bene e nel male. Ma non basta.
Per spiegarlo interviene la sessuologia che insegna che i maschi (assai di più delle femmine) hanno un tradizionale bisogno di farsi identificare come tali. E quindi tendono a scegliere capi di abbigliamento che li aiutino a rappresentarsi in senso mascolino. E non lascino dubbi, perlomeno visivi, sul loro genere. I cappellini da baseball andavano benissimo per questo scopo.
Il caftano, pur essendo un capo di abbigliamento assolutamente maschile (un paio di anni fa ero stato invitato a parlare a un congresso di urologi sauditi, ed ero l’unico con i pantaloni in una sala da mille persone, tutte maschi) risulta ambiguo agli occhi occidentali. Troppo femminile ed eccentrico. Dimenticando così il notevole accoppiamento di bellezza estetica, di quasi infinita varietà di tessuti, fogge e colori ed estrema praticità, perlomeno in casa, che citavo più su.
La “gonnafobia”
Insomma, da quando i pantaloni sono diventati l’unico modo di coprire bacino e gambe dei maschi, si è assistito a una vera e propria «gonnafobia». Talmente universale da essersi imposta ovunque, con l’esclusione dell’Africa e del Medio Oriente, anche in quelle culture dove la tunica era addirittura l’abito per eccellenza della classe dirigente. Come accadeva fino a un centinaio di anni fa in Cina e in tutte le società tributarie del Dragone.
Perché i sacerdoti portano una tunica?
Da noi gli unici a portare la tunica sono rimasti i sacerdoti. Certo per sottolineare l’attaccamento alla tradizione, ma anche per rappresentare pubblicamente la sostanziale de-virilità. La scelta di non volere appartenere al gruppo dei maschi sessualmente competenti.
La differenza fra travestiti e transessuali
Come tutti i diktat sociali, anche il divieto della gonna ai maschi ha i suoi oppositori. Ci sono uomini così tanto affascinati dalle vesti femminili che amano travestirsi da donna. Sia per far sesso sia per far spettacolo. Attenzione però. Questi maschi non sono affatto transessuali. Cioè persone che si vestono, semplicemente, con gli abiti del genere cui sentono di appartenere. Sono invece chiamati travestiti. Anche se il termine ha un connotato negativo. Tra loro si chiamano sorelline, sissy in inglese e in determinati contesti sessuali, e il loro comportamento è catalogato nei trattati di sessuologia contemporanei come cross-dressing.
I travestiti si distinguono dai transessuali perché sentono con assoluta certezza di appartenere al sesso cromosomico (maschile, dunque, per i possessori di patrimonio genetico XY). Mentre i transessuali, al contrario, si sentono totalmente e intimamente del genere opposto a quello dipendente dai loro cromosomi e conseguentemente dal fenotipo.
Chi sono i travestiti?
I travestiti, nella maggioranza dei casi, amano, quando si travestono, far sesso con altri uomini. Ben caratterizzati come tali ovvero, a loro volta, travestiti. Ma questo non è affatto la regola. I travestiti, infatti, non sempre e non necessariamente sono omosessuali o bisessuali o gender-fluid. Oppure asessuali. Come capitò sporadicamente al grande medico e sessuologo tedesco Magnus Hirschfeld di osservare quando coniò per primo il termine travestito.
Esistono infatti alcuni maschi totalmente etero, che si eccitano di più o meglio se fanno l’amore con le loro compagne – che spesso non si mostrano contrarie né contrariate e che non disdegnano di accompagnarli a fare shopping di abbigliamenti e accessori femminili – con posticci ma prosperosi seni avvolti da costosa lingerie femminile, con vistose parrucche alla Marylin e truccati da donne fatali. Si chiama trasgressione. E per queste persone può avere un potente effetto eccitante. Senza minimamente impattare né sull’orientamento sessuale (= chi mi piace avere nel mio letto). Né con l’identità di genere (= chi realmente sono). Se questo comportamento non è vissuto come obbligatorio, non condiziona totalmente la vita sessuale e non crea problemi al soggetto che lo pratica, il sessuologo medico ha ben poco da dire. Se non che non si tratta, certamente, di una malattia!
Il fenomeno delle drag queen
Nello stesso modo, il fenomeno delle drag queen, un tempo descritto con tratti teneramente grotteschi nel famoso Vizietto, con Michel Serrault e Ugo Tognazzi, uscito nelle sale cinematografiche nel 1978, è ora raccontato con ben altri toni dal cinema contemporaneo. Wikipedia riconosce oggi 168 film che trattano la tematica transgender, transessuale e del travestitismo. È diventato un genere artistico che interessa e colpisce. Anche questi uomini che si vestono da spettacolari superdonne avvolte da nuvole di piume di struzzo per una sera, salvo riprendere ad annodarsi al collo la cravatta regimental tutte le mattine, possono essere sia etero sia omosessuali sia variabili o indefinibili nelle loro scelte sessuali.
Con buona pace degli ossessionati dal binarismo, dobbiamo abituarci a considerare le cose che la gente fa a letto e con chi, purché adulto e perfettamente consenziente, materia non suscettibile di discussione, sanzione o riprovazione. Non più di quella che un rigido vegano dovrebbe nutrire (è il caso di dirlo) per chi si ciba di tartare di scottona e di ossobuco sul risotto allo zafferano (e viceversa, naturalmente).
La moda e le gonne da uomo
È in questo contesto che stanno facendo capolino, per ora nell’orizzonte metrosessuale, ma, non credo fra molto, anche a Ladispoli, Cosenza o Bergamo bassa, uomini con le gonne. Non parlo dei kilt scozzesi. Ma di veri e propri capi di abbigliamento che sostituiscano i decotti blue jeans. O gli orridi pinocchietti estivi. I maestri della moda internazionale hanno annusato nell’aria la tendenza, e stanno già cominciando a disegnare e confezionare gonne da maschio. Non solo per le collezioni di haute-couture destinate a un pubblico stravagante e ricchissimo. Ma anche per le collezioni di prêt-à-porter. Magari in un futuro vicino destinate ai grandi magazzini.
Lyst, uno dei più grandi motori ricerca dedicata alla fashion, certifica che la gonna da uomo sia stato uno dei capi di abbigliamento più cercato nel secondo quadrimestre del 2021. Un capo di abbigliamento non solo appannaggio di eccentrici elegantoni ma alla portata del clic. E quindi nel raggio di interesse, del pubblico del web.
Chi critica ha un’identità fragile
Se da un lato non c’è di per sé nulla di patologico nei maschi che non metterebbero mai una gonna, né per sorseggiare il tè in poltrona di fronte al camino di casa, né una birra al bar con gli amici (e ci mancherebbe altro!), coloro che invece oggi storcono il naso di fronte a questi interessanti fenomeni di rifiuto formale del binarismo non sono poi così lontani dai loro nonni o dai loro genitori che si scandalizzavano, non troppi anni fa, dei pantaloni portati dalle ragazze.
In entrambi i casi si trattava e si tratta di identità fragili e zoppicanti. Non radicate nella serena accettazione dei propri gusti sessuali e nel rispetto di quelli altrui. Ma incerta, fragile e bisognosa di conferme ed etichette in forma di abiti e apparenze, che permettano una rassicurante identificazione. Si tratta di personalità deboli e timorose. Identità talmente friabili da essere pronte a dar credito a ragionamenti basati su un binarismo pseudoscientifico che nella nostra specie (come in molte altre, a dire il vero), non ha alcuna cittadinanza biologica.
Emmanuele A. Jannini