C’è un momento giusto per ogni cosa, anche per la chemioterapia. L’orario a cui vengono somministrati i farmaci antitumorali può infatti condizionare la risposta dell’organismo e l’insorgenza degli effetti collaterali. A indicarlo è un esperimento sui topi fatto all’Università dell’Ohio, negli Stati Uniti: i risultati, pubblicati sulla rivista Scientific Reports, aprono ufficialmente la caccia all’ora X per la chemio, il momento perfetto della giornata che permetterebbe di massimizzare i benefici del trattamento minimizzando gli eventi avversi.
Occhio all’orologio biologico
Per scoprire l’ora giusta è fondamentale saper leggere le lancette del nostro orologio biologico, quel meccanismo molecolare insito nelle cellule dell’organismo che scandisce tutte le nostre funzioni vitali in base alle variazioni di luce legate all’alternarsi del giorno e della notte. Diversi studi scientifici hanno dimostrato la sua influenza sull’efficacia di varie terapie, e per questo i ricercatori statunitensi hanno pensato di verificare se lo stesso valesse anche per gli antitumorali.
L’esperimento sui topi
Lo studio ha preso in esame due farmaci comunemente impiegati nella lotta al tumore della mammella: la ciclofosfamide e la doxorubicina. Questi antitumorali sono stati iniettati in femmine di topo sane, non malate di cancro, proprio per verificare soltanto la reazione infiammatoria scatenata dai farmaci.
Le iniezioni sono state praticate in due momenti diversi: due ore dopo l’accensione delle luci (quando i roditori sono normalmente inattivi) oppure due ore dopo lo spegnimento delle luci (nel loro periodo di attività). I segni dell’infiammazione sono stati poi valutati analizzando la milza (organo cruciale per il sistema immunitario) e due regioni del cervello: l’ipotalamo e l’ippocampo.
I risultati
Gli esiti delle analisi dimostrano chiaramente che l’orario di somministrazione dei chemioterapici influisce sulla reazione dell’organismo. I topi che avevano ricevuto i farmaci durante il periodo di inattività, infatti, mostravano un’aumentata attività dei geni che promuovono l’infiammazione nella milza. Il loro metabolismo, inoltre, aveva scomposto i chemioterapici producendo una maggiore quantità di sostanze di scarto tossiche, note perché favoriscono l’infiammazione e, in alcuni casi, possono provocare anche problemi al cuore.
I topi che avevano ricevuto i farmaci durante il periodo di attività, al contrario, mostravano livelli di infiammazione più bassi nella milza e più alti nel cervello.
Organi fuori fase
«La milza e il cervello sono fuori fase», spiegano i ricercatori. «Quando l’infiammazione è elevata in un organo è bassa nell’altro e viceversa». Questa informazione è molto preziosa per due ragioni differenti. Innanzitutto perché l’infiammazione, specialmente a livello del cervello, sembra essere la causa di molti effetti collaterali neurologici legati ai chemioterapici, come ad esempio la depressione, l’ansia e il temporaneo calo della memoria.
In secondo luogo, perché questa scoperta potrebbe rivoluzionare anche il modo con cui si fanno le analisi per le patologie che interessano il cervello. «Spesso i medici misurano i marcatori di infiammazione presenti nel sangue convinti che rispecchino quello che sta accadendo nel cervello, ma in realtà – concludono i ricercatori – potrebbe essere vero l’esatto contrario».
Elisa Buson
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