Asociali. Assenti. Incapaci di interagire con chi gli sta attorno. Persi in movimenti ripetitivi. Così vengono descritti i bambini autistici: indifferenti al mondo, perché incapsulati nel loro. Ma anche dotati di talento straordinario, in matematica o nella musica, e di una memoria fuori dall’ordinario. Per lo meno questo è il ritratto più volte proposto al cinema. Un ritratto però non sempre fedele alla realtà. Perché ogni bambino con autismo è un caso a sé. Non tutti infatti sono dei geni con i numeri, anzi: la grande maggioranza soffre di una disabilità intellettiva. Così come non tutti detestano essere abbracciati. «Più che di autismo, infatti, dovremmo parlare di autismi», spiega Antonio Persico, professore di neuropsichiatria infantile dell’Università Campus Bio-Medico di Roma. «O, più correttamente, di disturbi dello spettro autistico: si manifestano in modi diversi, pur condividendo il problema dell’interazione sociale».
Scambiati per sordi
Si tratta infatti di disordini neurologici, principalmente di origine genetica, che compromettono la comunicazione sociale e le relazioni con gli altri. Non è raro, per esempio, che i genitori si rivolgano al medico per un sospetto di sordità, perché il figlio non risponde quando viene chiamato. «È uno dei primi segni che compaiono nei bambini con autismo. Un altro segnale di allarme è la mancanza di contatto visivo con la persona che gli sta parlando: lo sguardo del bambino, cioè, risulta sfuggente anche quando mamma e papà cercano di interagire con lui e attirare la sua attenzione», precisa Maria Luisa Scattoni, coordinatrice del Progetto Nida, per il riconoscimento precoce dell’autismo, dell’Istituto Superiore di Sanità. Avviato nel 2011, il progetto monitora fin dalla culla bambini ad alto rischio, perché fratelli e sorelle minori di bambini autistici, al fine di individuare alcuni segni precoci di un deficit nello sviluppo motorio, neuropsicologico e del linguaggio, per avviare il prima possibile adeguati programmi di riabilitazione.
«Perché purtroppo a volte la diagnosi arriva tardi: intorno ai 4-5 anni. Anche se i disturbi si manifestano generalmente tra i 12 mesi e i due anni», puntualizza la ricercatrice. Attualmente la diagnosi di autismo è puramente comportamentale: si basa cioè sull’osservazione di difficoltà relazionali, comunicative (verbali e non), cognitive e la presenza di comportamenti stereotipati e ripetitivi. «In altre parole», spiega Scattoni, «l’incapacità di interagire normalmente, il guardare il mondo senza apparente emozione e volontà di relazione, un’eccessiva aderenza alla routine, anche nel gioco, e una forte resistenza ai cambiamenti sono comportamenti ritenuti validi per identificare il disturbo». Non esiste infatti un test del sangue in grado di individuare chi è autistico, come per esempio il dosaggio della glicemia per diagnosticare il diabete.
Il test innovativo
Una novità arriva dalla Carnegie Mellon University, in Pennsylvania: un team di ricercatori sta sperimentando una sorta di test dell’abbraccio virtuale che potrebbe aiutare la diagnosi. Il test consiste nel registrare l’attività cerebrale di una persona mentre le viene chiesto di pensare al gesto dell’abbraccio o ad altre azioni che comportano un coinvolgimento sociale. Perché a quanto pare, come spiegano sulla rivista scientifica Plos One, nell’esecuzione di questo compito, il cervello di chi è autistico attiva regioni neurali diverse rispetto alle persone sane. In pratica non si attivano le aree situate nelle regioni posteriori del cervello che presiedono alla rappresentazione di sé. La spiegazione che danno i ricercatori è semplice: l’autistico non immagina se stesso nell’atto di abbracciare qualcuno.
Il fattore genetico
Intanto nei laboratori dell’Università Campus Bio-Medico a Roma e del Centro Mafalda Luce a Milano è stata avviata la mappatura genomica delle anomalie all’origine dell’autismo, «alla ricerca di quegli “errori” nel Dna che ci permetteranno in futuro diagnosi più precoci e terapie più efficaci e personalizzate», precisa Persico. Anni e anni di ricerche scientifiche hanno contribuito infatti a far luce sulle cause della malattia. «Il fattore preponderante all’origine dell’autismo», spiega Persico, «è senz’altro quello genetico: un mosaico di alterazioni del Dna. Ma anche fattori ambientali possono contribuire all’insorgenza della malattia: mi riferisco all’esposizione a infezioni virali in fase prenatale o l’assunzione di farmaci anti-epilettici da parte della madre, nel primo o secondo trimestre di gravidanza. Altre ipotesi vanno ancora vagliate o sono prive di evidenze scientifiche, se non vere e proprie leggende metropolitane».
Verso i farmaci molecolari
Al momento non esiste una cura specifica per l’autismo, ma terapie comportamentali e psicoeducative. Ai farmaci si ricorre solo per arginare alcuni disturbi che a volte accompagnano l’autismo, come per esempio l’aggressività, l’iperattività o l’insonnia. Anche se la sfida della ricerca medica è arrivare a farmaci molecolari contro l’autismo. Un team dell’Istituto europeo di oncologia e dell’Università degli Studi di Milano ha scoperto come la disfunzione nell’attività di alcuni geni, provocata da alterazioni del loro dosaggio (cioè da quante copie di quel gene siano presenti nelle cellule), alteri fin da subito lo sviluppo del cervello e stanno studiando alcuni farmaci in grado di ripristinare il corretto funzionamento di alcuni circuiti molecolari compromessi.
«Ma al momento il gold standard nella terapia è considerata l’analisi comportamentale applicata (Aba), che prevede una serie di strumenti e interventi che consentono al bambino di sviluppare quelle abilità di cui è carente», spiega Giovambattista Presti, docente di psicologia generale all’Università Kore di Enna e vicepresidente dell’Istituto europeo per lo studio del comportamento umano (Iescum). «Ovviamente più l’intervento è precoce (se inizia intorno ai due-tre anni), maggiore è il successo: tanto che in alcuni casi, in età scolare il comportamento del bambino autistico è indistinguibile da quello dei suoi coetanei».
Le tecnologie del CERN
Oggi la terapia può contare anche sulle tecnologie avanzatissime sviluppate dal Cern di Ginevra, il grande laboratorio europeo della fisica delle particelle. «In pratica», aggiunge Presti, «il Cern ha trasferito la tecnologia che usa per rilevare la traiettoria delle particelle in dispositivi digitali che, in questo modo, sono capaci di registrare i movimenti, cioè le azioni che il bambino compie sia su oggetti reali sia su immagini proiettate, e possono quindi aiutare i bambini affetti da disturbi dello spettro autistico nel loro processo di apprendimento. Grazie a questa tecnologia, in collaborazione con l’Università di Modena e Reggio Emilia, abbiamo realizzato una piattaforma digitale, attraverso cui proporre esercizi, monitorare tempi e risposte corrette o sbagliate, e aiutare il bambino a conoscere il mondo che lo circonda: espressioni facciali, vestiti, posate, sedie, tavoli, libri, giocattoli e quant’altro faccia parte del suo ambiente. Uno strumento utile, non solo per i terapeuti ma anche per i familiari, per insegnare loro a categorizzare questi elementi e persino la lettura, l’aritmetica, concetti di inclusione ed esclusione. L’ambiente virtuale è intrinsecamente motivante per i bambini, che così apprendono più velocemente».
Purtroppo però l’assistenza in Italia è garantita a macchia di leopardo, «e solo alcune regioni di eccellenza sono dotate di strutture specializzate in grado di fornire percorsi di cura continuativi, adeguati e all’avanguardia», sottolinea Scattoni.
di Simona Regina – da OK-Salute e Benessere marzo, 2015