Le tiroiditi sono processi infiammatori a carico della tiroide, una piccola ghiandola endocrina situata nella parte anteriore del collo, deputata a controllare le attività metaboliche, a stimolare quelle cellulari e a intervenire nei processi di crescita e sviluppo di molti tessuti. Esistono diverse forme di tiroiditi ma quella più comune è sicuramente la tiroidite di Hashimoto.
Molto frequente nel sesso femminile (circa 9 casi su 10), la tiroidite di Hashimoto è una malattia autoimmune: le difese immunitarie, cioè, attaccano erroneamente le cellule della tiroide, non riconoscendole come proprie. Per farlo, il sistema immunitario mette in campo una grande quantità di globuli bianchi (i linfociti), che si insinuano e accumulano proprio nella tiroide, alterandone struttura e attività. Dal canto loro, le cellule della tiroide sviluppano un processo infiammatorio cronico che, a lungo andare, può portare a ipotiroidismo. Si tratta di una condizione caratterizzata dall’incapacità, da parte della tiroide, di produrre ormoni adeguatamente sufficienti alle esigenze dell’organismo.
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Quali sono le cause?
I motivi per cui il sistema immunitario attacca, mediante anticorpi, la ghiandola tiroidea fino ad alterarne le sue funzionalità sono ancora oggetto di studi. Tuttavia, pare che la tiroidite di Hashimoto sia una patologia a forte impronta familiare, la cui predisposizione sia dunque trasmessa geneticamente (non è raro, infatti, che ne soffrano i genitori, gli zii o i nonni). Tra i fattori predisponenti sembrerebbe esserci anche un certo tipo di alimentazione: la carenza di iodio, o al contrario l’eccesso, potrebbe favorire l’insorgenza della malattia.
Tra i fattori di rischio ci sono anche il sesso (come abbiamo visto, prevale in quello femminile), l’età (compare soprattutto nelle donne tra i 30 e i 50 anni), lo stress, l’esposizione a radiazioni e, infine, patologie autoimmuni già presenti. Chi ha l’artrite reumatoide, il diabete di tipo 1, la vitiligine, il lupus, la celiachia, la malattia di Addison ha più probabilità di andare incontro anche a tiroidite di Hashimoto.
Quali sono i sintomi della tiroidite di Hashimoto?
I sintomi della tiroidite di Hashimoto possono variare a seconda dello stadio della malattia e possono anche non essere affatto presenti (forma asintomatica). In generale possono comparire, più o meno marcati, questi disturbi:
- eccessiva e inspiegabile stanchezza;
- debolezza;
- mancanza di concentrazione;
- alterazione della memoria;
- pelle pallida e/o secca;
- ridotta tolleranza alle basse temperature;
- stati d’ansia e depressione;
- stitichezza;
- cicli mestruali irregolari;
- ingrossamento della tiroide (gozzo);
- sviluppo di noduli al collo.
Molti sono convinti che la tiroidite di Hashimoto e l’ipotiroidismo comportino anche un significativo aumento di peso. In realtà può verificarsi solo un leggero aumento di peso (2-3 chili), che può essere messo in relazione con il fatto che chi soffre di queste condizioni tende ad accumulare liquidi.
Come si fa la diagnosi?
È probabile che un primo sospetto di tiroidite di Hashimoto venga posto dai medici di base, dai ginecologi e dagli specialisti che trattano patologie autoimmuni, come reumatologi e allergologi. In seguito, il paziente viene indirizzato verso l’endocrinologo, figura di riferimento per le malattie a carico della tiroide.
Per confermare la diagnosi, lo specialista verifica i valori di TSH (l’ormone che indica la funzionalità della tiroide), di T3 (l’ormone triiodiotironina) e T4 (l’ormone tiroxina) mediante un semplice esame del sangue. Sempre attraverso un prelievo, si vanno a misurare i valori degli anticorpi anti tireoglobulina (AbTG) e anti tireoperossidasi (AbTPO): si tratta degli anticorpi prodotti dal sistema immunitario e responsabili dell’insorgenza della tiroidite di Hashimoto. Spesso questi valori superano di molto i parametri considerati normali.
A completamento del quadro, lo specialista può eseguire anche un’ecografia della tiroide che, in caso di presenza di tiroidite, evidenzia un processo infiammatorio in atto.
Come si cura?
La tiroidite di Hashimoto, e il conseguente ipotiroidismo, si può tenere a bada con la terapia ormonale sostitutiva. Questa si basa sull’assunzione di levotiroxina, un analogo sintetico dell’ormone tiroxina (T4) prodotto dalla tiroide. Oggi abbiamo a disposizione diverse formulazioni – dalle compresse alle capsule molle, fino alla forma liquida – che consentono di personalizzare il trattamento.
La somministrazione quotidiana di levotiroxina permette di riportare gli ormoni tiroidei a valori normali, risolvendo positivamente i sintomi associati alla patologia. Il dosaggio varia in base allo stadio della malattia e può essere modificato nel corso del tempo a seconda dei controlli ematici periodici. In gravidanza, ad esempio, può essere necessario aumentare il dosaggio. Essendo la tiroidite di Hashimoto una patologia cronica, la terapia va assunta per tutta la vita.
Tiroidite di Hashimoto e gravidanza
Prima di cercare una gravidanza
«Quando si inizia a cercare una gravidanza, oltre agli esami di routine consigliati dal ginecologo, è importante dosare il TSH, per essere certi che la tiroide funzioni bene, soprattutto se si è over 30 o se si ha familiarità per patologie autoimmuni o malattie tiroidee», spiega Alfredo Pontecorvi, direttore della UOC di Medicina Interna, Endocrinologia e Diabetologia della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS. «Se dagli esami emerge un ipotiroidismo, è necessario regolarizzare immediatamente la funzione tiroidea».
Se non trattata, infatti, la tiroidite di Hashimoto si associa a un rischio aumentato di poliabortività, «non solo per la cattiva funzionalità della tiroide, ma anche per la presenza di un sistema immunitario iperattivo, che può determinare aborti precocissimi nelle prime settimane di gravidanza», continua Pontecorvi.
In gravidanza
Durante la gestazione alla tiroide della futura mamma si richiede un lavoro extra perché deve fornire gli ormoni tiroidei anche al feto, specialmente nel primo trimestre. Il feto, infatti, inizia a produrre ormoni tiroidei in autonomia solo a partire dalla 12esima settimana di gravidanza.
«Le donne già in terapia sostitutiva con levotiroxina per via di ipotiroidismo per una tiroidite autoimmune, durante la gravidanza devono aumentare del 30-50% il dosaggio abituale del farmaco, per far fronte a questa maggiore richiesta di ormoni tiroidei materni», dice Carlo Rota, endocrinologo della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS.
Questo è fondamentale perché un ipotiroidismo non trattato nei primi tre mesi di gravidanza può avere serie ripercussioni sullo sviluppo neurologico del bambino. Nel secondo e nel terzo trimestre, invece, un ipotiroidismo materno può aumentare il rischio di sofferenza fetale e di basso peso alla nascita o provocare un parto prematuro.
Ogni quanto fare gli esami?
«Una donna ipotiroidea che assume già levotiroxina deve controllare il TSH prima della gravidanza, poi ogni 4 settimane nel primo trimestre, infine ogni due mesi fino a fine gravidanza. A ogni cambio di terapia poi, gli esami si devono ripetere a distanza di due settimane», continua Rota.
«Alla 32esima settimana, nelle donne ipotiroidee per tiroidite cronica autoimmune, vanno dosati gli anticorpi anti-recettore del TSH perché ne esiste una variante che può inibire il TSH», spiega il professor Potecorvi. «Gli anticorpi bloccanti possono permanere nel sangue del neonato per alcuni mesi dopo la nascita e bloccare la sua tiroide che, invece, deve funzionare alla perfezione perché altrimenti si possono determinare importanti alterazioni dello sviluppo cerebrale. Gli ipotiroidismi neonatali da anticorpi anti-TSH bloccanti sono forme transitorie ma vanno gestiti con attenzione insieme al neonatologo».
Dopo la gravidanza
Dopo la nascita del bambino, la mamma può tornare al dosaggio abituale di levotiroxina. «Tuttavia, è bene fare un controllo della tiroide a 6-8 settimane dal parto perché nel post-partum c’è il rischio di un peggioramento della tiroidite di Hashimoto», conclude il professor Rota.