Test del PSA per diagnosticare il cancro della prostata: qual è la reale utilità di questo esame a livello preventivo? È affidabile o piuttosto limitato? Abbiamo fatto chiarezza sull’argomento con l’urologo Pierpaolo Graziotti. È autore di oltre 190 pubblicazioni scientifiche ed è past President dell’Associazione urologi italiani (Auro.it).
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Il test del PSA è conosciuto come marcatore del cancro alla prostata: va dosato o no?
L’esame del PSA consiste in un prelievo del sangue che misura il livello dell’antigene prostatico-specifico (PSA). In altre parole la proteina secreta dalla prostata con la funzione fisiologica di fluidificare il liquido seminale per favorire la fecondazione degli ovuli. Questo valore non è sempre uguale. Il suo incremento può dipendere da diversi fattori, non soltanto dalla presenza di tumore.
La cosa fondamentale è che i pazienti siano a conoscenza dei limiti di questo esame, che può essere utile, ma anche dannoso. Il paziente deve sapere che questo test può richiedere ulteriori accertamenti clinici, anche invasivi, che spesso sono inconcludenti. Il valore del PSA può essersi mosso per ragioni che nulla hanno a che vedere con un tumore della prostata. Non c’è inoltre ancora una evidenza scientifica inequivocabile che attesti che la diagnosi precoce, formulata con il dosaggio del PSA, riduca la mortalità per cancro della prostata.
Test del PSA e screening di massa: qual è la posizione attuale a riguardo?
Il problema si presenta proprio parlando di screening di massa, in ambito di diagnosi precoce. Gli elementi a disposizione in questo momento non sono sufficienti a giustificare che questo marcatore entri a far parte degli esami di routine preventivi consigliati dal Servizio Sanitario Nazionale, come ad esempio il pap test o la ricerca del sangue occulto nelle feci.
Il perché è da ricercarsi nella scarsa affidabilità del test con la presenza di falsi positivi e falsi negativi. Potrebbe richiedere ulteriori accertamenti invasivi come biopsie prostatiche reiterate e situazioni di ansia da parte del paziente. Esiste anche il problema del riscontro di malattie che potrebbero non avere una evoluzione nel tempo. La peculiarità del cancro della prostata è di essere molto frequente, soprattutto in una certa fascia di età (sopra i 70 anni). La mortalità è però attorno al 6% pari a un decimo rispetto alla frequenza.
Prima che sia istituito uno screening di massa occorre dimostrare il vantaggio sulla sopravvivenza e in questo momento i dato sono del tutto equivoci.
Quando è importante sollecitarlo?
Nei pazienti che hanno un alto rischio di sviluppare il cancro della prostata. In questi casi lo screening va anticipato ed è ragionevole dosare il PSA dopo i 40 anni.
Il PSA è invece utilissimo nel controllo dei pazienti che hanno avuto una terapia per il tumore. In costoro, infatti, è un’indagine molto affidabile e per nulla costosa.
E negli altri casi?
Dato per scontato che il paziente deve essere informato sia dei pro sia dei contro derivanti dal dosaggio periodico di un marcatore aspecifico come il PSA, è ragionevole consigliare di eseguire il test tra i 50 e i 72 anni. Dopo tale età non vi è alcuna ragione per continuare con lo screening.
Richard Ablin, lo scopritore del test del PSA, ha preso una chiara posizione a riguardo.
Richard Ablin ha scoperto l’antigene PSA 40 anni fa e ha scritto un libro dal titolo “Il grande imbroglio della prostata”, sottotitolo: “Come la grande medicina manipolando il PSA test ha causato un disastro per la salute pubblica”. In questo libro Ablin afferma che l’americana Food and Drug Administration non avrebbe dovuto approvare questo esame come test di screening. Recentemente ha dichiarato che «questo valore non è strettamente correlato al cancro della prostata e non può essere utilizzato per una diagnosi specifica. Questo tipo di tumore può essere aggressivo o come nella maggior parte dei casi, svilupparsi molto lentamente».
Tali affermazioni fanno meditare. Con lo screening possono essere cooptati anche quei pazienti che hanno una malattia a basso rischio per la quale magari non sarebbero mai morti. Questa è la ragione per la quale, in mancanza di dati inequivocabili circa la riduzione della mortalità da cancro di prostata nel gruppo di soggetti studiati, non è scientificamente corretto candidare tutta la popolazione maschile a tale valutazione di massa.