Da un lato ci sono gli sherpa, gli uomini dell’Himalaya, esili, dal passo lento e il respiro che coglie ogni molecola di ossigeno. Dall’altro ci sono tutti gli altri, moltissimi quelli che a 5 mila metri di altitudine non riescono nemmeno ad arrivare e per tutti, allenati o meno, il rischio di ipossia è ad ogni metro di altitudine guadagnato. La ridotta disponibilità di ossigeno in alta quota (già dopo i 2.500 metri) causa un rapido aumento della pressione arteriosa nell’arco di sole 24 ore e più si sale e maggiore è l’incremento repentino: a dimostrarlo, per la prima volta, uno studio dell’Università di Milano-Bicocca e dell’Istituto Auxologico Italiano pubblicato sull’European Heart Journal.
Partita nel 2008, la spedizione ha coinvolto tredici ricercatori e 47 volontari che, passando da tappe intermedie per consentire l’acclimatamento, hanno raggiunto il campo base sud (lato Nepalese) del monte Everest, ad un’altitudine di 5400 metri sul livello del mare. Nell’indagine, la pressione è stata misurata ogni mattina e monitorata nelle 24 ore a intervalli regolari, inoltre metà dei partecipanti è ricorsa all’assunzione di un farmaco comunemente utilizzato per l’ipertensione arteriosa, al fine da smorzare gli effetti dell’alta quota. Il gruppo di lavoro ha osservato che la pressione arteriosa sale immediatamente al raggiungimento dell’alta quota, perdura per tutto il periodo di permanenza in vetta ma con incremento maggiore nelle ore notturne, con variazioni più significative nei soggetti con più di 50 anni. La pressione si normalizza una volta ritornati a livello del mare.
«L’aumento di pressione osservato può essere attribuito a diversi fattori, tra i quali il più importante sembra l’attivazione del sistema nervoso simpatico, determinato dalla ridotta disponibilità di ossigeno. – spiega Gianfranco Parati, coordinatore del progetto- Tale fenomeno fa si che il cuore venga sottoposto ad un carico maggiore di lavoro e che i vasi sanguigni si costringano». Importanti per affrontare mal di montagna (vedi qui come riconoscerlo) e altri rischi per la salute associati all’alta quota, questi risultati forniscono ulteriori dettagli per gli stati di ipossia correlati a malattie croniche come lo scompenso cardiaco, le apnee ostruttive nel sonno o l’obesità grave. «Messe insieme, queste condizioni si riscontrano in più di 600 milioni di persone nel mondo, il che rende i nostri risultati molto significativi dal punto di vista clinico.- prosegue l’esperto – I nostri risultati ci permetteranno di istruire i pazienti con problemi cardiovascolari sulle precauzioni necessarie in caso di esposizione all’alta quota per motivi lavorativi o ludici. Inoltre il nostro studio sottolinea l’importanza del monitoraggio dinamico ambulatorio della pressione nella caratterizzazione dei livelli pressori nelle condizioni di vita reale; questo dato sembra particolarmente rilevante in condizioni di ipossia, i cui effetti possono essere molto più evidenti durate le attività quotidiane che non a riposo». Lo stesso gruppo di ricercatori è ora impegnato in un altro studio per rilevare fluttuazioni di pressione ad alta quota sotto sforzo, con una spedizione di ricerca sul Monte Bianco.
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