La sindrome di Cornelia de Lange è una malattia rara con una frequenza di un caso ogni 20.000 nati. Prende il nome dalla pediatra olandese che nel 1933 l’ha scoperta. In realtà era stata preceduta da un medico tedesco, per questo è conosciuta anche come sindrome di Brachmann-de Lange. Come spiega Angelo Selicorni, medico genetista e direttore dell’Unità operativa complessa di pediatria ASST-Lariana Como, la patologia «appartiene al capitolo delle sindromi malformative complesse ed è caratterizzata da un ritardo nello sviluppo psicomotorio e intellettivo, in genere moderato-grave, tratti somatici peculiari, scarso accrescimento, microcefalia e irsutismo». I bambini colpiti possono avere «malformazioni importanti a carico di braccia, mani e, ma meno frequentemente, malformazioni agli iorgani interni, come cuore e reni».
Aspettativa e qualità di vita
Nella maggior parte dei casi, i bimbi affetti dalla sindrome di Cornelia de Lange non raggiungono la maggiore età, anche se l’aspettativa di vita é legata alla gravità dei difetti di crescita e sviluppo. Influenzata dall’importanza del deficit è anche la qualità di vita dei bambini e della loro famiglia. «Il 20-30% ha dei ritardi psicomotori e mentali lievi – continua l’esperto – si tratta di bambini che, se seguiti in modo adeguato con un buon percorso riabilitativo e un’insegnante di sostegno a scuola, possono avere una qualità di vita discreta». Le prospettive cambiano quando i ritardi sono gravi. «In questi casi la situazione è più complessa da gestire, sia da un punto di vista sanitario, sia riabilitativo. Le famiglie sono molto provate e gravate dall’assistenza dei bambini». La sindrome, infatti, evolve con ritardo psicomotorio, difficoltà nell’acquisizione del linguaggio e, a volte, con problemi comportamentali di tipo autistico.
Un difetto genetico
Come la maggior parte delle malattie rare, anche la sindrome di Cornelia de Lange ha un’origine genetica, quindi un’alterazione del Dna. Ad oggi, la diagnosi della malattia viene fatta attraverso l’osservazione morfologica dei lineamenti del volto, della testa e degli arti. Le caratteristiche peculiari del viso comprendono sopracciglia ben disegnate, incurvate e fuse sulla linea mediana, allungamento delle ciglia, narici anteverse, micrognazia (sviluppo anomalo della mandibola), bocca con angoli rivolti verso il basso, labbro superiore molto sottile.
La diagnosi prenatale
La diagnosi prenatale è possibile con due strade. Nonostante il rischio di ricorrenza sia molto basso, «se una famiglia ha già avuto un bambino con questa malattia, è possibile fare una ricerca del difetto genetico sul Dna del feto» spiega Selicorni. «Altrimenti, durante la gravidanza conl’ecografia, che può rivelare ritardo della crescita intrauterina e anomalie degli arti oltre ad altri segni ecografici che possono solo far ipotizzare la diagnosi».
Non c’è cura
Una terapia specifica non è ancora disponibile, ma, racconta l’esperto, «si sta individuando quello che è il difetto genetico di base: il problema è che questo difetto riguarda geni che hanno funzione regolatorie sulla funzione di altri geni. Quindi arrivare a una terapia farmacologica non né facile né immediato». La cosa più importante è che le famiglie riescano ad accedere ai percorsi riabilitati, alla fisioterapia e all’assistenza, che aiutano nella realtà quotidiana e «rappresentano l’unico vero “farmaco” disponibile, perché migliorano notevolemente la qualità di vita dei bambini» sottolinea Selicorni. «Purtroppo, però, sappiamo quando è difficile in Italia accedere a servizi riabilitativi che prendano in carico i bambini in modo continuativo ed efficace».
L’indagine
Queste difficoltà pratiche sono oggetto dell’indagine “Juggling care and daily life – gestire l’assistenza e la vita quotidiana” presentata in occasione della XII Giornata delle malattie rare da UNIAMO Firm Onlus (Federazione italiana malattie rare). I risultati parlano della difficoltà dei pazienti e dei loro familiari/caregiver a districarsi tra le attività della vita quotidiana e gli ostacoli che la malattia comporta. Secondo l’indagine, condotta su 3.071 persone, sette su dieci sono costretti a ridurre o sospendere la propria attività professionale a causa della malattia; otto su dieci hanno difficoltà a svolgere semplici compiti quotidiani e due terzi dei caregiver dedicano più di due ore al giorno ad attività legate alla malattia.
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