La sclerosi multipla può manifestarsi a ogni età, ma è diagnosticata per lo più tra i 20 e i 40 anni e soprattutto nelle donne, che risultano colpite in numero doppio rispetto agli uomini. Per frequenza è la seconda malattia neurologica nel giovane adulto e la prima di tipo infiammatorio cronico. È proprio il periodo della vita in cui si decide di voler avere un figlio.
Lo studio delle cause della malattia è ancora in corso, ma tra i fattori di rischio c’è sicuramente una predisposizione genetica. La combinazione tra i due elementi – maggior rischio per le donna e predisposizione genetica – spingeva i medici fino a qualche anno fa a sconsigliare alle pazienti con sclerosi multipla di diventare mamme.
Ora la situazione è totalmente cambiata, dopo che la ricerca scientifica ha dato risultati incoraggianti, perché è stato dimostrato che durante i nove mesi c’è una sorta di protezione per la donna, con una riduzione significativa delle ricadute. Inoltre la gravidanza non influisce a lungo termine sull’andamento della malattia.
È evidente che comunque se si decide di avere un figlio è necessario parlarne con il proprio neurologo per valutare attentamente la proprio condizione. Ogni persona è diversa dall’altra e questo è ancor più vero in una malattia come la sclerosi multipla. In ogni caso, appena fatta la diagnosi di SM, generalmente il consiglio è quello di aspettare circa due anni prima di provare a cercare un bambino, così da avere un’idea dell’andamento della malattia e capire quale potrebbe essere l’evoluzione negli anni successivi.
Detto questo chi soffre di sclerosi multipla e vuole diventare mamma si pone comunque alcune domande: la prima è quella se c’è la possibilità di trasmettere la patologia ai propri figli. Bisogna dire immediatamente che predisposizione genetica non significa ereditarietà. La sclerosi multipla non si trasmette da madre a figlio. C’è solo una bassa percentuale (sotto il 4%) che il figlio sviluppi in futuro la stessa malattia della madre.
Un’altra delle domande che la futura mamma si pone riguarda la sospensione della terapia, che tendenzialmente viene “congelata” durante la gravidanza e nei mesi immediatamente successivi. Recenti studi rassicurano sulle cure a base di glatimer acetato e di interferone beta. In entrambi i casi non c’è alcun aumento di rischio né per la donna, né per il feto. Questo è assolutamente importante soprattutto nel caso in cui la paziente non si accorga di essere incinta e anche se nei primi tempi dovesse continuare a seguire la terapia, non ci sarebbero problemi.
Per altri farmaci, come il natalizumab o il fingolimod, il consiglio è quello di sospendere tre mesi prima di provare ad avere un figlio. A oggi tuttavia non esistono linee guida e quindi sarà lo specialista a valutare la singola situazione.
Un’altra domanda che si pongono molte donne e se c’è la possibilità di un peggioramento della malattia. La risposta è no. Non c’è prova scientifica di un aggravamento delle condizioni di una paziente con sclerosi multipla che è incinta, rispetto alle donne con SM che non hanno portato avanti una gravidanza. Anzi, durante i mesi di gravidanza, come si diceva prima, molte donne non hanno alcuna ricaduta e dichiarano di sentirsi molto bene. Può esserci invece un aumento di rischio di ricadute nei primi tre mesi dopo il parto, ma tale probabilità rientra poi ai livelli precedenti alla gravidanza.
Anche il parto può essere naturale e ci si può sottoporre come qualunque altra gestante all’analgesia epidurale o a un’anestesia. Il periodo più duro può essere quello successivo alla nascita, soprattutto nelle pazienti che vivono una forma aggressiva della malattia, perché si è visto che vi sono maggiori rischi di avere attacchi importanti nei primi 6 mesi dopo la nascita del bambino. In questo caso si consiglia di rinunciare all’allattamento in modo da poter ricominciare subito la terapia. Se invece la malattia ha un decorso più tranquillo, la mamma può allattare senza problemi e aspettare il termine dell’allattamento per riprendere l’assunzione dei farmaci. Sarà comunque sempre il neurologo a valutare il profilo di rischio individuale e concordare con la neomamma la scelta migliore.
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