La propria patologia non è l’unica cosa con cui un malato raro deve fare i conti per tutta la vita. Spesso chi vive nella rarità, infatti, attende mesi – e, nel peggiore dei casi, anni – per trovare lo specialista giusto, avere una diagnosi, conoscere nome e implicazioni di ciò che ha, essere preso in carico e iniziare, se c’è, una terapia. Se la vita di queste persone potesse essere trasferita su una linea retta, ci si accorgerebbe infatti che in molti casi tra la prima manifestazione dei sintomi e la conferma diagnostica si interpongono infruttuosi «pellegrinaggi» da un medico all’altro alla ricerca di risposte esaustive e rassicuranti.
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Dietro ai frequenti ritardi diagnostici ci sono sintomi che traggono in inganno
Dietro ai ritardi diagnostici, ai quali spesso si associano anche la mancanza di centri di riferimento e una carenza di percorsi costruiti intorno al paziente, ci sono diverse problematiche che, in egual misura, contribuiscono ad alimentare questo (tristemente) noto fenomeno. Innanzitutto bisogna dire che sfortunatamente la maggior parte delle malattie rare si presenta con sintomi aspecifici, sfumati e facilmente confondibili con quelli caratteristici di patologie più comuni. Questi disturbi traggono in inganno non solo chi li accusa – che non può certo sospettare la presenza di una malattia rara – ma anche chi dovrebbe riconoscerli tempestivamente. Per questo a molti pazienti vengono somministrate terapie errate, che non migliorano in alcun modo il quadro clinico ma, anzi, rischiano di aggravarlo.
Le conoscenze scientifiche sono scarse e mancano specialisti
La sintomatologia di queste patologie, che secondo la rete Orphanet Italia interessano circa due milioni di persone nel nostro Paese, con 19.000 nuove diagnosi ogni anno, viene individuata e circoscritta a fatica anche perché spesso le conoscenze scientifiche sono insufficienti. I medici di famiglia, che in prima battuta si occupano di raccogliere le informazioni circa i disturbi accusati, non sono sempre nelle condizioni di comprendere lo specialista di riferimento al quale indirizzare il paziente e ciò rende difficile, per l’individuo, orientarsi tra medici, centri di riferimento e servizi di supporto. A ciò si aggiunge, talvolta, un altro gap: ancora oggi mancano specialisti che conoscano a fondo tutte le implicazioni di queste malattie rare e multi-sistemiche, che possano riconoscerne le caratteristiche e prendere in carico a 360 gradi il paziente.
Spesso le visite sono inefficaci
Infine, come ha recentemente ricordato Annalisa Scopinaro, presidente Uniamo – Federazione Italiana Malattie Rare in un incontro, il ritardo diagnostico è dovuto anche a visite forse inefficaci negli ambulatori. Se il tempo dedicato al paziente è limitato, è ancora più complicato sospettare una patologia rara, già di per sé poco conosciuta e dagli esordi assai subdoli. L’insieme di questi fattori – la presenza di sintomi sfumati, la mancanza di formazione dei medici di famiglia, l’assenza di specialisti di riferimento e, quindi, l’inadeguatezza delle visite – fa sì che la diagnosi tardi ad arrivare e ciò può pregiudicare seriamente la prognosi della malattia. Terapie che potrebbero fare la differenza risultano vane (o quasi) se somministrate mesi o anni dopo l’inizio della patologia.
Una malattia quasi mai diagnosticata tempestivamente è la Lhon
Una delle malattie rare che più rappresenta quanto detto finora è la neuropatia ottica ereditaria di Leber (Leber’s hereditary optic neuropathy, Lhon), che si manifesta frequentemente tra i 15 e i 30 anni con una progressiva perdita della vista e interessa un italiano su 45-50.000, in prevalenza di sesso maschile. Purtroppo questa patologia genetica, che si presenta con una macchia bianca abbagliante al centro del campo visivo e problemi di fotofobia, è così poco conosciuta che per buona parte degli specialisti è molto difficile diagnosticarla o anche solo sospettarla.
Non solo alcuni oculisti non riconoscono i segni della malattia ma spesso la confondono con una neurite ottica, che è un’infiammazione del nervo ottico causata frequentemente dalla sclerosi multipla, e per questo somministrano farmaci cortisonici che poi si rivelano del tutto inefficaci. Di frequente, poi, gli specialisti eseguono esami sbagliati, come i Potenziali Evocati Visivi, che servono per diagnosticare l’amaurosi congenita di Leber e altre retiniti che nulla hanno a che fare con la Lhon.
L’oculista di base deve quantomeno insospettirsi
«In realtà il nervo ottico del paziente, se esaminato adeguatamente, è in grado di dare informazioni importanti e rivelare particolari anomalie all’oculista di base, che deve avere almeno il dubbio che ci possa essere una patologia genetica, anche se rara» interviene Maria Lucia Cascavilla, Responsabile del Servizio di Neuroftalmologia all’ospedale San Raffaele di Milano. L’aggettivo «raro», infatti, descrive il tasso di incidenza di una malattia, ma non ne decreta l’inesistenza. L’eventualità che si manifesti una condizione rara, insomma, c’è sempre, anche se le possibilità sono, ovviamente, ridotte.
«Nel caso specifico della neuropatia ottica ereditaria di Leber, la conferma diagnostica arriva sempre molto tardi e il paziente giunge in un centro di neuroftalmologia diversi mesi dopo l’esordio della malattia. In questi poli italiani d’eccellenza la diagnosi viene fatta con un esame obiettivo oculistico, che si fa valutando il fondo oculare, il campo visivo e, con una tomografia ottica computerizzata, anche la struttura del nervo ottico. L’indagine genetica, infine, è in grado di confermare definitivamente la presenza della Lhon. Più velocemente si intraprende questo percorso diagnostico, prima si individua questa malattia rara estremamente invalidante e più in fretta si inizia l’unica terapia attualmente approvata per questa patologia che, se somministrata entro i primi sei mesi dall’esordio dei sintomi, può frenarne la progressione» conclude la specialista.
Bisogna puntare sulla ricerca, certo, ma anche sulla formazione
Come la Lhon, però, anche altre patologie rare si diagnosticano in ritardo. Difficilmente si avrà un’inversione di rotta se non si investirà, oltre che nella ricerca, anche in formazione: se c’è una cosa che la pandemia Covid-19 ci ha insegnato, infatti, è che bisogna puntare più capillarmente sulla medicina del territorio, coinvolgendo in questi percorsi anche i medici di famiglia, che devono migliorare le loro capacità di sospetto diagnostico.
Un elemento chiave, questo, per ripensare al modello di gestione delle patologie rare, nel quale devono confluire una presa in carico immediata del paziente, l’adozione dell’assistenza domiciliare in tutte le regioni, una connessione delle reti multidisciplinari, un accesso più snello alle terapie e la diffusione di sistemici informatici in grado di creare database condivisi. E la Giornata delle Malattie Rare, che quest’anno si celebrerà il 28 febbraio, ci ricorda proprio quante cose ancora ci sono da fare – e che possiamo fare – per migliorare il percorso di cura e assistenza dei pazienti rari.