Insidiosa, difficilmente riconoscibile e, per questo, sottodiagnosticata. Dell’alfa mannosidosi non colpisce solo che sia una patologia ultra-rara ma anche che sia estremamente complessa da identificare. Questa malattia geneticamente trasmessa, che interessa da 1/500.000 fino a 1/1.000.000 nati, è infatti molto eterogenea e si presenta con una grande varietà di manifestazioni cliniche, che inizialmente possono essere ricondotte ad altre problematiche. «L’alfa mannosidosi appartiene al gruppo di malattie metaboliche da accumulo lisosomiale che originano, cioè, da difetti nel funzionamento dei lisosomi, ossia organelli cellulari formati da un centinaio di enzimi deputati allo smaltimento di alcune sostanze di scarto» spiega Maurizio Scarpa, Direttore del Centro di Coordinamento Regionale Malattie Rare dell’Azienda Sanitaria Universitaria Integrata di Udine e Coordinatore della Rete di riferimento europeo per le malattie metaboliche (MetabERN). Tra questi enzimi c’è l’alfa mannosidasi, che degrada gli oligosaccaridi ricchi in mannosio. «Se questo enzima lisosomiale è completamente assente o funziona male, si verifica un accumulo intracellulare del materiale non correttamente espulso, provocando danni progressivi alle cellule stesse, agli organi e ai tessuti dell’intero organismo» continua il professore.
Da questa anomalia scaturisce una composita serie di sintomi che, a primo acchito, può non destare sospetto alcuno. «Spesso, infatti, la malattia si manifesta con ricorrenti infezioni respiratorie, ad esempio polmoniti, disturbi alle orecchie, come otiti e calo d’udito, soffio al cuore e debolezza muscolare» interviene Scarpa. «Col tempo, poi, possono subentrare anche alterazione dei lineamenti del viso, deformazioni scheletriche, riduzione delle capacità cognitive e intellettuali, mancanza di coordinazione dei movimenti e, soprattutto in età adulta, psicosi e aumento del volume del fegato». Come è evidente, i segnali dell’alfa mannosidosi sono ambigui e aspecifici, tanto che possono trarre in inganno non solo i genitori, che ovviamente non conoscono il variegato mondo delle malattie metaboliche rare, ma anche gli specialisti, che non sempre riescono a cogliere il quid necessario per innescare un sospetto ed eventualmente giungere a una diagnosi. «Se a queste criticità si aggiunge il fatto che la patologia, a differenza di altri disordini da accumulo lisosomiale, non è presente in maniera visibile alla nascita ma si può manifestare dopo i primi due anni di vita, è chiaro che la capacità diagnostica si abbassa ulteriormente, portando a un ritardo terapeutico non indifferente» prosegue il medico.
Eppure la diagnosi precoce è un tassello fondamentale nella gestione di questa malattia perché nei giovani pazienti, per i quali i benefici superano di gran lunga i rischi, si può optare per il trapianto di cellule staminali ematopoietiche presenti nel midollo osseo: si tratta di una procedura che permette di sostituire in toto il compartimento cellulare alterato con uno nuovo e funzionante, ottenuto da un donatore sano. «Riconoscere tempestivamente la patologia, però, è importante anche per poter intraprendere il prima possibile l’unico trattamento farmacologico esistente, cioè la terapia enzimatica sostitutiva, che mira a rimpiazzare o supplementare l’alfa-mannosidasi naturale» continua il professor Scarpa. Sul fronte della diagnosi precoce l’Italia resta un Paese all’avanguardia perché dal 2016 è entrata in vigore una legge che prevede che ogni neonato debba essere sottoposto, a poche ore dalla nascita, a uno screening neonatale esteso, che permette di identificare circa 40 patologie metaboliche congenite con un solo prelievo di sangue. In Friuli Venezia Giulia, in Veneto e in Toscana, inoltre, il test è stato ampliato anche a patologie da accumulo lisosomiale, consentendo agli specialisti di comprenderne la natura stessa.
Comunque, per non perdere tempo prezioso è più che mai necessario formare adeguatamente gli specialisti, ampliando le loro conoscenze e fornendo loro strumenti appropriati per poter subodorare la presenza di un’anomalia genetica. «Per soddisfare questa necessità mi sono fatto promotore di un progetto pilota che, alla luce dei fatti, si è rivelato estremamente utile e vantaggioso» spiega Scarpa. Infatti il professore, insieme con Lucia Santoro, Referente per le malattie genetiche e metaboliche della clinica pediatrica dell’Azienda Ospedaliero Universitaria – Ospedali Riuniti di Ancona, e Graziella Cefalo, Responsabile dell’Ambulatorio di Malattie Rare in Età Pediatrica dell’Ospedale San Paolo di Milano, ha coinvolto, in una lectio di 3 ore, 15 pediatri che operano nelle Marche.
«Li abbiamo condotti, anche attraverso del materiale fotografico, nell’eterogeneo mondo delle malattie lisosomiali, illustrando anche numerosi casi clinici. Dopodiché abbiamo realizzato, sulla base di quanto emerso da questo breve corso, una scheda di sintomi che potesse servire loro per individuare eventuali anormalità metaboliche congenite. Nei due mesi successivi gli specialisti, che nei proprio ambulatori hanno visitato complessivamente più di 1500 bambini, hanno consultato questo importante documento, arrivando a identificare 5 casi sospetti. Questi ultimi sono stati indirizzati al Centro della dottoressa Santoro e alla fine, dopo aver eseguito il test dell’attività enzimatica residua dell’alfa mannosidasi e l’analisi genetica, è emerso che due di loro avevano effettivamente un difetto riconducibile a malattie metaboliche» continua il professore. Questa sperimentazione, dunque, è risultata fondamentale per scovare celermente una patologia rara che, altrimenti, con ogni probabilità sarebbe rimasta “nascosta” ancora per parecchio tempo.
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