«L’impianto cocleare è una protesi costituita da elettrodi che, inseriti chirurgicamente all’interno della coclea (la componente che traduce i suoni in impulsi nervosi comprensibili al cervello), sono in grado di stimolare il nervo acustico dopo aver ricevuto le informazioni sonore captate ed elaborate da un processore posizionato all’esterno dell’orecchio» spiega Alessandro Martini, Professore Ordinario di Otorinolaringoiatria dell’Università degli Studi di Padova.
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Impianto cocleare: quando si usa
Il trattamento di elezione delle sordità rimane l’apparecchio acustico che, a differenza dell’impianto cocleare che sostituisce la funzionalità della coclea, sopperisce al deficit uditivo attraverso l’amplificazione dei suoni che giungono all’orecchio.
«Quando il paziente con ipoacusia non trae alcun beneficio dalla protesizzazione acustica “normale”, allora lo specialista può prendere in considerazione l’impianto cocleare» interviene Martini. «Quando si sono affacciati per la prima volta nel panorama terapeutico della sordità, cioè tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, questi dispositivi impiantabili erano destinati esclusivamente all’adulto diventato completamente sordo. Poi, col passare del tempo, la Food and Drug Administration (FDA) statunitense ha allargato il campo anche ai bambini nati sordi, tant’è che oggi gli impianti cocleari si inseriscono anche nei pazienti che hanno meno di uno-due anni» continua il professore.
Impianto cocleare più sicuro grazie al rilascio di antinfiammatori
Nel corso del tempo gli studiosi hanno condotto ricerche con il supporto di MED-EL per capire in che modo ridurre eventuali reazioni avverse scatenate dall’introduzione dell’elettrodo che, seppur sottile e flessibile, entra comunque in contatto con una struttura delicatissima come la coclea. «I più recenti studi hanno mostrato come rendere tale tecnologia sempre più efficace nel tempo, soprattutto nei pazienti con una prospettiva di vita molto lunga, attraverso il rilascio di sostanze di rigenerazione e neuroprotezione proprio tramite gli elettrodi» conferma Martini.
In queste sperimentazioni gli elettrodi sono stati ricoperti di un agente antinfiammatorio della famiglia del cortisone, con un rilascio programmato nella giornata. Dai dati ottenuti è emerso che gli impianti che rilasciavano il farmaco provocavano una minor reazione da parte dei tessuti dell’organo cocleare e quindi una minor fibrosi e ossificazione rispetto agli elettrodi standard.
«Questi risultati fanno pensare che l’utilizzo di elettrodi dotati di dispenser rilasciante un farmaco antinfiammatorio possano ridurre al minimo il trauma post-chirurgico dell’orecchio interno, mantenere nel tempo i benefici dell’impianto e pertanto garantire a lungo il normale funzionamento della coclea» prosegue il professore.
In futuro l’impianto cocleare rigenererà l’orecchio interno
Oggi si continua su questa linea, certo, ma la ricerca sta valutando anche altre soluzioni terapeutiche. «In particolare si studiano elettrodi in grado di rilasciare sostanze neutrofiche o cellule staminali, che possano stimolare l’attività di ciò che di vivo c’è ancora nella coclea e bloccare la degenerazione spontanea dei neuroni cocleari» conclude Martini.