Il cuore smette di “tremare” in oltre la metà dei pazienti con fibrillazione atriale che si sottopongono ad ablazione transcatetere, l’intervento mininvasivo che isola e disattiva le cellule del cuore responsabili dell’aritmia.
Lo dimostrano i dati di un ampio studio condotto valutando gli esiti di oltre 3.600 procedure eseguite tra Europa, Medio Oriente e Nord Africa. I dati sono pubblicati sullo European Heart Journal da un gruppo internazionale di esperti della Società europea di cardiologia (ESC) e dell’Associazione europea per il ritmo cardiaco (EHRA).
Un killer silenzioso
La fibrillazione atriale è l’aritmia cardiaca più diffusa in assoluto e il suo trend è in continua crescita: si stima che nell’Unione europea il numero di pazienti colpiti salirà fino a 17 milioni entro il 2030, con oltre 150.000 nuove diagnosi ogni anno. Le conseguenze per la salute possono essere davvero devastanti: la fibrillazione atriale raddoppia il rischio di morte nelle donne e lo moltiplica per 1,5 negli uomini. Inoltre è responsabile del 20-30% degli ictus e influisce pesantemente sulla qualità di vita, dando palpitazioni, fiato corto e debolezza.
L’intervento
L’ablazione transcatetere è un intervento che viene solitamente raccomandato ai pazienti che non rispondono adeguatamente ai farmaci antiaritmici. La procedura consiste nell’inserimento per via venosa (in genere attraverso la vena femorale o la giugulare interna) di alcuni sondini, chiamati elettrocateteri, che vengono spinti fino all’interno del cuore: una volta posizionati sulle cellule anomale che causano l’aritmia, somministrano una stimolazione elettrica a radiofrequenza che distrugge il tessuto malato responsabile dell’innesco o del mantenimento dell’aritmia.
Il paziente tipo
I dati raccolti nello studio indicano che il paziente tipo sottoposto ad ablazione è generalmente uomo, ha circa 60 anni, manifesta sintomi che vanno e vengono e non sembrano essere collegati ad anomalie strutturali del cuore.
I risultati
Dopo l’intervento i sintomi della fibrillazione atriale si riducono in maniera significativa, tanto da sparire in oltre la metà dei casi. «Questa è una buona notizia», commenta la coordinatrice dello studio Elena Arbelo, aritmologa dell’ospedale di Barcellona, in Spagna. «Secondo i nostri registri – aggiunge la dottoressa – il 91% dei pazienti sceglie di fare l’intervento per alleviare i sintomi e il 66% per migliorare la qualità di vita». L’ablazione ha successo nel 74% dei pazienti: ciò significa che non presentano segni di aritmia atriale nel periodo che va dai 3 ai 12 mesi successivi all’intervento. Circa il 45% dei pazienti sottoposti con successo ad ablazione, però, continua ad assumere farmaci antiaritmici a distanza di un anno.
La questione degli anticoagulanti
Le linee guida raccomandano l’utilizzo di farmaci anticoagulanti orali nei pazienti sottoposti ad ablazione che presentano due o più fattori di rischio per l’ictus. Queste indicazioni, però, non sempre vengono seguite: secondo i dati raccolti nello studio, il 27% dei pazienti a rischio non assume anticoagulanti, mentre paradossalmente lo fa un terzo di coloro che sono a basso rischio. «Questo è un grosso problema – sottolinea Arbelo – perché i pazienti ad alto rischio che non prendono gli anticoagulanti hanno una maggiore probabilità di avere un ictus, mentre quelli che prendono questi farmaci senza averne bisogno rischiano di avere episodi emorragici».
I controlli dopo l’intervento
Per quanto concerne gli esami e le visite di controllo dopo l’intervento, l’83% dei pazienti si sottopone almeno ad un controllo dal cardiologo e l’86% fa almeno un elettrocardiogramma. D’altra parte, però, solo il 60% dei pazienti esegue gli holter e gli elettrocardiogrammi in serie consigliati per monitorare la situazione. «L’ablazione transcatetere non è un’operazione chirurgica a cuore aperto – ricorda Arbelo – ma è comunque una procedura invasiva che comporta un certo rischio. E’ impensabile che quattro pazienti su dieci non vengano monitorati adeguatamente».
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