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Cos’è
Pesantezza, bruciore, acidità di stomaco: possono essere malesseri temporanei ma se diventano ricorrenti è bene non sottovalutarli. La causa può essere la malattia da reflusso gastroesofageo. Niente di grave, ma è un disturbo da curare, perché, se persiste per molti anni, può portare alla comparsa dell’esofago di Barrett, una condizione precancerosa da monitorare per cogliere in tempo una eventuale trasformazione maligna. A lungo termine infatti, c’è il rischio concreto che la malattia da reflusso, se non controllata, possa modificare la mucosa della porzione inferiore dell’esofago, a causa di uno «sconfinamento» della mucosa gastrica che tipicamente riveste le pareti interne di stomaco e intestino. Una nuova tappezzeria, in pratica, che l’esofago produce a causa dall’eccesso di acido dovuto al reflusso cronico. «E questa trasformazione, a cui diamo il nome di esofago di Barrett, aumenta di circa il 25-28% il rischio di carcinoma: perché la proliferazione cellulare abnorme nel tempo predispone allo sviluppo di neoplasie», avverte Pier Alberto Testoni, direttore dell’unità operativa di gastroenterologia ed endoscopia digestiva dell’Ospedale San Raffaele di Milano.
Sintomi
Rigurgiti e bruciore sono i sintomi tipici. «Ma la contrazione dell’esofago può causare anche dolore retrosternale, che in molti casi è difficile da distinguere dal dolore di origine cardiaca», precisa Testoni. «Altri sintomi, causati dall’infiammazione innescata dal ristagno del materiale gastrico in gola, riguardano le vie aree. Sono tosse secca, laringite, asma, voce roca». Se i fastidi sono sporadici possono bastare all’occorrenza i farmaci antiacidi, ma se diventano ricorrenti e persistenti è opportuno consultare un gastroenterologo.
Diagnosi
«È necessario tenere sotto controllo i pazienti con reflusso cronico di lunga durata, sottoponendoli periodicamente all’endoscopia del tratto gastrointestinale superiore: la gastroscopia». Se il tessuto risulta anomalo (si parla in questo caso di displasia), ne vengono prelevati dei campioni e con la biopsia si possono identificare i diversi gradi della malattia (si deve soprattutto controllare la comparsa della displasia) e l’eventuale evoluzione verso l’adenocarcinoma, un tumore dell’esofago.
Terapia farmacologica
«Con la terapia farmacologica, a base dei cosiddetti inibitori di pompa protonica che riducono l’acidità gastrica, si interviene per guarire l’esofagite, la condizione infiammatoria che può portare allo sviluppo dell’esofago di Barrett», spiega Testoni. Ma se il paziente non risponde adeguatamente ai farmaci, o richiede un alto dosaggio (cui è connesso il rischio di effetti collaterali: contaminazione batterica dell’apparato digerente, gonfiore addominale, diarrea, difetto di assorbimento del ferro, quindi a lungo termine anemia e osteoporosi), o in caso di riscontro di displasia di basso grado «si può ricorrere alla terapia chirurgica antireflusso: cioè alla creazione di una “sciarpa” di stomaco attorno all’esofago che assume le funzioni di una nuova valvola», illustra Riccardo Rosati, primario di chirurgia gastroenterologica del San Raffaele. «A questo intervento, che si esegue con tecnica laparoscopica, si può associare un trattamento di ablazione con radiofrequenza». Si distrugge lo strato più superficiale della mucosa esofagea dove si sviluppa appunto l’esofago di Barrett, in modo da ripristinare le condizioni favorevoli affinché si formi tessuto sano. L’ablazione è opportuna perché una volta sviluppata una displasia è verosimile che anche altre aree del rivestimento dell’esofago possano degenerare.
Chirurgia
«Se il Barrett è invece evoluto verso displasia di alto grado, che è il primo step del carcinoma invasivo dell’esofago, si procede con l’intervento di mucosectomia endoscopica: si asporta con il gastroscopio una piccola area di mucosa esofagea per ottenere un esame istologico completo», continua Rosati. «Se la lesione è molto superficiale e coinvolge solo la mucosa l’intervento endoscopico può essere considerato curativo. Se invece è più profonda, chirurgicamente si devono rimuovere l’esofago e parte dello stomaco, insieme alle linfoghiandole loco-regionali. La continuità e la funzionalità dell’apparato digerente vengono ripristinate connettendo con una sutura il moncone superiore dell’esofago alla parte restante di stomaco. Si tratta dell’intervento più complesso della chirurgia addominale, che richiede grande competenza. Può essere eseguito con un’incisione classica dell’addome e del torace (dette laparotomia e toracotomia), o con procedure di chirurgia mininvasiva di laparoscopia o toracoscopia. L’intervento dura circa quattro ore e richiede una degenza in ospedale di una decina di giorni. Nell’arco di qualche mese il paziente torna a una vita assolutamente normale. In particolare, essendo stata ridotta la dimensione dello stomaco, inizialmente devono essere assunti pasti di volume contenuto e di consistenza morbida. Gradualmente poi si possono aumentare le quantità e passare a pasti normali».
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