Dietro a una diagnosi di tumore al seno spesso si cela la paura non solo della malattia in sé e di tutto ciò che questa può comportare nella vita della paziente ma anche di non riuscire più ad avere un figlio. In alcuni casi, infatti, alle numerose incognite strettamente correlate alla patologia si aggiunge anche quella relativa alla possibilità di intraprendere una gravidanza dopo la conclusione del percorso terapeutico. Questo è dovuto al fatto che molte terapie oncologiche possono indurre effetti collaterali duraturi nel tempo, in grado di compromettere anche irreversibilmente la fertilità femminile. Tuttavia diventare madri dopo le cure per il cancro è possibile ma tante donne non sono adeguatamente informate a riguardo.
Sebbene al momento della diagnosi prevalga soprattutto la sopravvivenza della paziente, capita ancora che molti oncologi si concentrino solo su quell’obiettivo e ignorino altri aspetti importanti della vita della donna, come appunto il suo desiderio di avere un bambino. «È invece essenziale che, nel momento traumatico della diagnosi, la paziente riceva informazioni mediche rigorose e olistiche che tengano conto dei diversi aspetti trascendentali della sua vita. Oltre a essere informato, il malato di cancro deve essere soprattutto ascoltato», interviene Daniela Galliano, specialista in Ostetricia, Ginecologia e Medicina della Riproduzione, responsabile del centro PMA IVI di Roma. «È nostro preciso dovere informare le pazienti alle quali è stato diagnosticato un tumore al seno delle opzioni per preservare la loro fertilità e comprendere le loro esigenze».
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Tutelare la fertilità delle donne con diagnosi di tumore mediante la crioconservazione degli ovociti
Prima di iniziare il percorso oncologico, infatti, è possibile tutelare la salute riproduttiva della donna mediante alcune tecniche specifiche, come ad esempio la crioconservazione degli ovociti. Questa procedura, che nasce proprio per salvaguardare la fertilità delle donne sottoposte a trattamenti medici, come appunto la chemioterapia o la radioterapia, ma che oggi nel nostro Paese si può fare anche per motivi personali, consente di congelare i propri ovociti per poi utilizzarli in futuro per provare ad avere un bambino.
Il processo si articola ovviamente in diverse fasi ma ciò che bisogna sapere è che «si procede attraverso una stimolazione ovarica e un prelievo degli ovociti che però, invece di essere fecondati direttamente, vengono vitrificati e conservati in azoto liquido. Questi sono mantenuti per tutto il periodo desiderato dalla paziente nel caso di scelta volontaria o, comunque, fino al termine delle cure chemioterapiche o radioterapiche nelle ipotesi di preservazione della fertilità a causa di una patologia oncologica», continua Galliano.
È grazie a questa tecnica se oggi Elisa, dopo aver vinto un cancro al seno, può tenere in braccio il suo bambino. Come ci racconta lei stessa, in questo percorso sono stati fondamentali sia il suo oncologo, che l’ha informata della possibilità di crioconservare gli ovociti prima della chemioterapia, e il medico dell’IVI, che l’ha accompagnata in questo viaggio, non privo di ostacoli e difficoltà. Come Elisa, ci sono molte donne che hanno realizzato il loro desiderio di essere madri, nonostante abbiano dovuto lottare contro quel nemico inatteso e sconcertante.
La crioconservazione degli ovociti non influisce sull’evoluzione del tumore
Una delle principali paure tra i malati di cancro di nuova diagnosi è come il tempo necessario per vetrificare gli ovuli possa influenzarli o se la stimolazione ovarica possa avere implicazioni negative per la prognosi della malattia. «I dati pubblicati sul follow-up dei pazienti oncologici che sono stati stimolati a congelare gli ovociti mostrano tassi di sopravvivenza simili a quelli che non lo hanno fatto», fa sapere la dottoressa.
«La stimolazione ovarica che questa procedura comporta non influisce sull’evoluzione del cancro, principalmente per il fatto che con i farmaci utilizzati i livelli di estrogeni che si raggiungono sono simili a quelli osservati in un ciclo naturale. Il coordinamento con l’oncologia permette di controllare i tempi, in modo che tale stimolazione non influisca sul successivo trattamento oncologico a cui la paziente andrà incontro. Dobbiamo considerare la vetrificazione degli ovociti come una finestra di opportunità per le nostre pazienti e non come un ostacolo sulla strada per la guarigione dal cancro», conclude Galliano.