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La tecnica innovativa
Ringiovanire il primo tratto dell’intestino potrebbe cancellare anni di abbuffate e chili accumulati. E le loro conseguenze. La tecnica del “lifting del duodeno“ è un innovativa e potrebbe aiutare a sbarazzarsi del diabete di tipo 2. In Italia è in sperimentazione all’Irccs Humanitas di Milano e al Policlinico Gemelli di Roma, e nel giro di pochi anni potrebbe imprimere una svolta nella terapia del diabete, aprendo la strada a una nuova generazione di trattamenti tutti focalizzati su un unico bersaglio: l’intestino.
Le cellule dell’intestino
«Nella mucosa del primo tratto dell’intestino, il duodeno, ci sono cellule importanti per il controllo del metabolismo degli zuccheri» spiega Alessandro Repici, responsabile del centro di endoscopia digestiva di Humanitas. «Dopo ogni pasto producono un mix di molecole, come i peptidi GIP e GLP-1, che stimolano il pancreas a rilasciare insulina e glucagone, ormoni fondamentali nel controllo dei valori della glicemia. Con gli anni, a causa di cattive abitudini alimentari e sovrappeso, queste cellule possono aumentare, causando una disregolazione del metabolismo che apre le porte all’insulino-resistenza e poi al diabete».
La scopeta dei chirurgi
alle prese con pazienti obesi
I primi ad accorgersi del ruolo di queste cellule nell’intestino sono stati i chirurghi bariatrici, alle prese con gli interventi per il dimagrimento dei pazienti obesi. La deviazione del tratto digerente che escludeva il duodeno e il primo tratto dell’intestino tenue, infatti, determinava non solo la perdita di peso, ma anche un miglioramento del profilo glicemico. «Da qui è nata l’idea di sviluppare una tecnica endoscopica mininvasiva. L’intento è di erogare calore direttamente nel duodeno per eliminare le cellule endocrine e stimolarne il ricambio. In questo modo si ripristinerebbe la situazione iniziale che era presente prima delle cattive abitudini alimentari» afferma Repici.
Come funziona l’intervento
Il ringiovanimento della mucosa duodenale consiste in un breve intervento della durata di un’ora, eseguito in regime di day hospital sotto anestesia generale. Attraverso il controllo dell’endoscopio, spiega Repici, «si inserisce nel duodeno un catetere, che si gonfia formando un palloncino di circa 20 millimetri. Applicato su una parte della mucosa, prima la raffredda, poi la scalda fino a 86 gradi per alcuni secondi e poi la raffredda di nuovo». La procedura, ripetuta più volte per trattare pezzo dopo pezzo circa 10 centimetri di duodeno, finisce per «bruciacchiare» in modo controllato la mucosa, stimolandone la rigenerazione.
Possibili rischi operatori
La tecnica è mininvasiva e il recupero è molto veloce, tanto che «i pazienti riprendono a mangiare la sera stessa dell’intervento», rassicura il gastroenterologo. Fondamentale affidarsi a mani esperte. «C’è sempre la possibilità che il catetere perfori il duodeno, anche se con le nuove tecnologie il rischio si è molto ridotto. Più probabile, invece, è che un eccesso di pressione o di danno termico sulla mucosa possa creare una reazione cicatriziale che porta al restringimento del duodeno, con la formazione di una vera e propria stenosi che ostacola il passaggio del cibo e deve necessariamente essere dilatata con un nuovo intervento». Ma scenari del genere si sono verificati solo nell’1% dei casi trattati nella sperimentazione clinica di fase 1, condotta su un centinaio di pazienti.
L’efficacia dell’intervento
«Abbiamo ottenuto dati molto positivi per quanto riguarda l’efficacia dell’intervento», precisa Geltrude Mingrone, direttore dell’unità operativa complessa di patologie dell’obesità al Gemelli. «Abbiamo osservato che a 6 e 12 mesi di distanza dall’intervento si ha un netto miglioramento del controllo glicemico. Addirittura un terzo dei pazienti smette di assumere farmaci per il diabete. Gli altri continuano con le terapie ma riducono le dosi e non devono neppure ricorrere all’insulina».
Benefici anche per il fegato
Il ringiovanimento del duodeno determina anche il miglioramento della funzionalità del fegato. «La rigenerazione della mucosa duodenale riduce l’insulino-resistenza del fegato che è alla base della steatosi epatica non alcolica. Una condizione patologica legata al sovrappeso conosciuta come fegato grasso» prosegue Mingrone. «Si ha una riduzione del grasso accumulato nel fegato e un miglioramento dei parametri relativi alla funzionalità epatica, come gli enzimi transaminasi e Gamma-GT».
Gli studi finiranno l’anno prossimo
Una buona notizia, che si spera possa essere confermata anche dalla sperimentazione clinica di fase 2, in corso tra Stati Uniti, Europa e Sud America. Lo studio prevede l’arruolamento di pazienti tra i 28 e i 75 anni, affetti da diabete di tipo 2, in terapia con farmaci antidiabetici orali ma non ancora sottoposti a insulina, con valori di emoglobina glicata (HbA1c) tra 7,5 e 10% e indice di massa corporea fra 24 e 40. La fase sperimentale dovrebbe concludersi nel 2019 anche nei due centri italiani, Humanitas e Gemelli. Se i risultati si confermeranno positivi, spiega Mingrone, «sarà una vera svolta per quei pazienti diabetici (quasi la metà del totale) che non riescono a tenere sotto controllo la malattia con i farmaci».
Altri scenari: pellicola intestinale
L’idea di combattere il diabete agendo sull’intestino ha una portata così rivoluzionaria da aver aperto la strada a tutta una serie di terapie innovative che vogliono mimare gli effetti della chirurgia bariatrica e del ringiovanimento duodenale, evitando però l’intervento. In principio è stato l’Endobarrier: «È una sorta di pellicola che serviva a coprire la mucosa duodenale impedendo il contatto con il cibo», ricorda l’esperta. «I risultati erano buoni, ma purtroppo la mucosa intestinale veniva traumatizzata dai gancini che venivano impiegati per tener ferma la pellicola. Così è nata l’idea di un nuovo sistema meno invasivo, che stiamo sperimentando anche al Gemelli: si tratta di una pellicola per il duodeno, realizzata ovviamente con materiale biocompatibile, che viene tenuta in posizione tramite un palloncino nello stomaco. I primi risultati ottenuti sugli animali dimostrano un’efficacia simile a quella della chirurgia bariatrica».
Altri scenari: una “semplice” pillola
Un’ulteriore evoluzione della terapia è stata sviluppata nei laboratori del Brigham and Women’s Hospital di Boston sotto forma di pillola: assunta prima dei pasti, rilascia una sostanza adesiva che ricopre temporaneamente la parete dell’intestino per impedire l’assorbimento del cibo, per poi dissolversi senza lasciare traccia. Una sorta di chirurgia in pillole, che a breve dovrebbe essere testata su topi diabetici e obesi.
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