I ricercatori dell’Istituto Telethon di genetica e medicina (Tigem) di Napoli avrebbero individuato una potenziale terapia farmacologica contro l’accumulo di acido lattico che si osserva in una rara malattia metabolica di origine genetica: il deficit di piruvato deidrogenasi. Lo studio è stato pubblicato su Science Translational Medicine, rivista dedicata a quelle ricerche che hanno la potenzialità di essere applicate rapidamente in ambito clinico.
I ricercatori del Tigem hanno dimostrato come un farmaco già utilizzato per altre patologie possa essere efficace nel controllo dei danni legati all’eccessivo accumulo di acido lattico. Questa sostanza fondamentale del nostro metabolismo è molto nota, basti pensare all’indolenzimento che proviamo quando sottoponiamo il nostro organismo a un esercizio fisico eccessivo. L’acidosi lattica si manifesta però anche in varie patologie associate a un ridotto flusso di sangue nei tessuti. Se in condizioni normali l’acido lattico in eccesso viene normalmente smaltito, questo non succede nel caso di patologie di origine genetica dovute a un difettoso metabolismo degli zuccheri. È il caso del deficit di piruvato deidrogenasi, malattia caratterizzata da gravi problemi neurologici e legata alla carenza di un enzima essenziale per il metabolismo.
«Il problema di questi pazienti – spiega Brunetti-Pierri – è l’accumulo di acido lattico che danneggia vari tessuti e in particolare cervello e muscoli, con danni permanenti e progressivi la cui gravità dipende dall’entità del deficit enzimatico. La piruvato deidrogenasi è normalmente presente in due forme, una attiva e una inattiva, e il suo stato di attivazione è a sua volta regolato da altri enzimi: la piruvato deidrogenasi viene attivata dalla rimozione di specifici gruppi fosfato in risposta a precise richieste dell’organismo. Se la piruvato deidrogenasi è già poco funzionante, spegnere questi “interruttori molecolari” che la inattivano può aiutare a promuoverne l’attività e a sfruttare al massimo la ridotta attività disponibile. Finora non è stato trovato alcun trattamento in grado di contrastare la malattia da deficit di piruvato deidrogenasi: quando però ci siamo imbattuti nel fenilbutirrato abbiamo intuito che potesse essere una strada interessante».
Il fenilbutirrato è attualmente utilizzato per le malattie metaboliche dovute a difetti del ciclo dell’urea e, da poco, anche nella malattia delle urine a sciroppo d’acero, dovuta alla carenza di un enzima molto simile alla piruvato deidrogenasi: i ricercatori partenopei hanno quindi provato a verificare se lo stesso farmaco fosse in grado di aumentare l’attività della piruvato deidrogenasi: i risultati, in questo senso, sono stati positivi.
«Sia nei fibroblasti prelevati dai pazienti, sia in due diversi modelli animali, abbiamo visto che il fenilbutirrato è in grado di promuovere l’attività della piruvato deidrogenasi, riducendone l’aggiunta di gruppi fosfato, ovvero il segnale di inattività» spiega Rosa Ferriero, che ha lavorato alla ricerca. «Aumentando così la quota di enzima attivo, abbiamo osservato un miglioramento significativo dei sintomi motori e neurologici, nonché dei parametri biochimici: a questo punto non ci resta che testare direttamente nei pazienti l’efficacia di questo trattamento».
Alla luce di questi risultati, infatti, il gruppo del Tigem sta lavorando con i principali clinici italiani esperti di queste malattie metaboliche per mettere in piedi uno studio clinico sui pazienti. «Poiché il farmaco è già ampiamente utilizzato per altre malattie non abbiamo bisogno di verificarne l’eventuale tossicità, perché altri lo hanno già fatto prima di noi. Nello stesso tempo, però, voglio dare un messaggio importante: prima di impiegare il fenibutirrato nei pazienti occorre aspettare i risultati dello studio clinico, che ci consentirà di capire effettivamente se quanto osservato in laboratorio valga anche per l’uomo». Un aspetto importante dello studio riguarda la possibile applicazione del fenilbutirrato per contrastare le conseguenze deleterie dell’acidosi lattica che aggrava molte malattie non genetiche come l’infarto del miocardio e lo stroke cerebrale, a dimostrazione di come la ricerca sulle malattie rare possa essere rilevante per lo sviluppo di terapie rivolte a patologie più comuni.