Dal pugile Muhammad Alì al cardinale Carlo Maria Martini, dal fumettista Charles Schulz all’artista Salvador DalÍ, fino all’attore Michael J. Fox e a papa Giovanni Paolo II. Sono molti i personaggi noti che sono stati colpiti dalla malattia di Parkinson. Una condizione descritta per la prima volta nel 1817 dal medico britannico James Parkinson, che la definì «paralisi agitante».
Si tratta di una patologia neurodegenerativa che riguarda oggi lo 0,3% delle persone nel mondo. Per un totale di circa un milione in Europa e 150mila in Italia. È di solito associata all’invecchiamento, tant’è che raggiunge il 3% degli over 80. Ma si può anche presentare in una forma giovanile (5% dei casi), esordendo prima dei 40 anni. La notizia positiva è che negli ultimi anni, grazie anche a donazioni a enti come la Fondazione Grigioni per il Morbo di Parkinson, la ricerca scientifica ha compiuto numerosi passi avanti nella diagnosi e nella terapia della malattia, con risultati apprezzabili.
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Parkinson: cosa succede nel cervello
Per comprendere le importanti novità che si profilano all’orizzonte è però necessario spiegare cosa accade a chi sviluppa la malattia. «Nel nostro cervello sono presenti, in una piccola zona detta sostanza nera, i neuroni dopaminergici, così chiamati perché funzionano grazie alla dopamina. Un neurotrasmettitore responsabile dell’attivazione dei circuiti che controllano i movimenti e l’equilibrio», chiarisce Federica Agosta, professore associato di neurologia all’Università Vita-Salute San Raffaele e responsabile dell’unità di neuroimaging delle malattie neurodegenerative dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano. «Nei pazienti affetti dal Parkinson accade che nei neuroni dopaminergici si alteri una proteina, l’alfa-sinucleina, che con il tempo si deposita sotto forma di agglomerati di forma tondeggiante (corpi di Lewy). Che provocano la degenerazione delle cellule stesse».
L’origine della malattia
La causa del processo non è nota con precisione. Ma si ritiene che una predisposizione genetica possa aumentare il rischio di sviluppare la patologia. In particolare, uno studio italiano pubblicato pochi mesi fa su Frontiers in Genetics ha analizzato il genoma di 845 persone, identificando 11 nuovi geni implicati nell’origine della malattia.
Altri fattori che possono avere un ruolo sono la difficoltà nell’eliminare in modo corretto l’alfa-sinucleina, traumi cranici ripetuti, prolungata esposizione ai pesticidi utilizzati in agricoltura.
Le tre fasi del Parkinson
Sintomi prodromici
Nella patologia si possono identificare tre fasi. «La prima è caratterizzata dai sintomi cosiddetti prodromici, che includono tra gli altri depressione, ansia, alterazioni del sonno nella fase Rem (Rapid eye movement), durante la quale avvengono i sogni», rende noto Agosta.
Sintomi motori
«Dopo un periodo prolungato, anche cinque-dieci anni, subentra la seconda fase, in cui compaiono i sintomi motori. Come tremore alla mano, rallentamento nel cammino, rigidità nei movimenti, postura curva (camptocormica)».
Sintomi invalidanti
«C’è, infine, la terza fase, contrassegnata dai sintomi più gravi e invalidanti, che possono includere instabilità posturale con tendenza alla caduta, disturbi cognitivi fino a una vera e propria demenza. Incontinenza urinaria, pressione bassa del sangue (ipotensione ortostatica), seborrea ed eccessiva sudorazione, perdita di saliva (scialorrea), secchezza degli occhi (xeroftalmia), stipsi».
Curare il Parkinson
Farmaci e riabilitazione
Oggi la principale risorsa per contrastare i sintomi della malattia, in particolare quelli motori, è la levodopa. Un farmaco che supplisce alla carenza di dopamina. «Questa molecola è sicura ed efficace», sottolinea la neurologa. «Ma, dopo alcuni anni di terapia a dosaggi elevati, potrebbe generare alcune complicanze. In particolare ulteriori sintomi motori, come movimenti involontari».
Per ovviare a ciò, spesso vengono impiegati, in sostituzione o in combinazione, farmaci simili, i dopamino-agonisti. Alla terapia farmacologica deve sempre essere associata la riabilitazione motoria, eseguita da un fisioterapista esperto che definisce un protocollo in base alle caratteristiche e ai sintomi del paziente.
Stimolazione cerebrale profonda
Quando i medicinali non sono più sufficienti a controllare la sintomatologia, per i pazienti privi di deficit cognitivi e di disturbi psichiatrici può essere indicata la stimolazione cerebrale profonda, un intervento neurochirurgico eseguito con una leggera sedazione. In modo che il paziente resti vigile e possa collaborare con gli operatori. Durante la procedura, il chirurgo pratica dei piccoli fori nel cranio. Inserisce, quindi, appositi elettrodi, che vicariano la funzione della dopamina.
Questi ultimi vengono poi connessi, tramite un sottile filo sottocutaneo, a un neurostimolatore. Un piccolo dispositivo simile a un pacemaker cardiaco, collocato sotto la pelle del torace, che provvederà a inviare gli impulsi elettrici necessari a ridurre i sintomi motori debilitanti. L’operazione si rivela efficace soprattutto per quanto riguarda l’instabilità posturale e il tremore. Ma i benefici tendono a venire meno con il trascorrere del tempo.
Farmaci mirati
Se le terapie in uso hanno il solo scopo di rendere meno gravosi i sintomi, la speranza nel prossimo futuro è di curare il Parkinson. Cioè riuscire a bloccare, o perlomeno a rallentare, la progressione della malattia. Una revisione pubblicata nel 2020 sul Journal of Parkinson’s Disease afferma che le nuove molecole attualmente in fase di studio nell’uomo per tale scopo sono circa 150. A cui si aggiungono quelle studiate in laboratorio nei modelli cellulari o negli animali. L’ambito più promettente è al momento quello degli anticorpi monoclonali, farmaci mirati a eliminare gli agglomerati di alfa-sinucleina. Tra questi, si annoverano, per esempio, prasinezumab, PD01A e PD03A. Ci sono poi molecole che agiscono riducendo la neuroinfiammazione, come xenatide, liraglutide, lixisenatide.
Cellule staminali
Molto promettenti anche le sperimentazioni con le cellule staminali. Ovvero cellule indifferenziate in grado di trasformarsi in cellule dei diversi organi o tessuti. Nel caso del Parkinson, l’obiettivo degli scienziati è quello di produrre cellule in grado di sostituire i neuroni dopaminergici, la cui funzionalità viene meno nel corso della malattia. Due studi pubblicati nel 2017, uno su Nature, l’altro su Nature Communications, e condotti da un gruppo di studiosi giapponesi hanno, per esempio, mostrato come sia possibile, nelle scimmie, partendo da staminali riprogrammate, ricreare neuroni che producano dopamina, impiantandoli poi nel cervello.
Terapia genica
Un altro ambito interessante è quello della terapia genica. Uno studio comparso sulle pagine di Nature nel 2020 e realizzato sui topi dagli scienziati della University of California San Diego School of Medicine, negli Stati Uniti, ha dimostrato che basta l’inibizione di un singolo gene specifico per mettere in moto una «fabbrica» di neuroni che producono dopamina.
Ovviamente non è detto che queste terapie innovative, sperimentate con successo nelle scimmie o nei topi, abbiano risultati positivi anche negli esseri umani. Ma studi di questo tipo servono a fornire una prova di fattibilità, che invita i ricercatori a continuare sulla strada intrapresa.