Basta una luce ultravioletta a lunghezza d’onda corta, o a radiazione UV-C per igienizzare le superfici contaminate dal coronavirus. Si tratta della luce prodotta da lampade a basso costo al Mercurio, che sono già utilizzate ad esempio negli acquari per mantenere l’acqua senza agenti patogeni. La conferma arriva da una ricerca sperimentale condotta da un team multisciplinare. Sono stati della partita ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), dell’Università Statale di Milano, dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Minalo (INT) e dell’IRCCS Fondazione Don Gnocchi. Da tempo gli scienziati stanno indagando sul rapporto tra Covid e raggi ultravioletti. Da una parte per comprendere come aiutare a sanificare le superfici, dall’altra per capire se il sole caldo possa aiutare a rallentare la diffusione del coronavirus.
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Covid e raggi ultravioletti: quanti ne servono per essere efficaci?
È noto già da tempo il potere germicida della luce UV-C su batteri e virus. Questa avviene perché questa luce riesce a rompere i legami molecolari di DNA e RNA che costituiscono questi microorganismi. Diversi sistemi basati su luce UV-C sono già utilizzati per la disinfezione di ambienti e superfici in ospedali e luoghi pubblici. È però la prima volta che i ricercatori hanno stabilito la misura diretta della dose di raggi UV necessaria per rendere innocuo il virus.
Il team di ricerca ha illuminato con questa luce soluzioni a diverse concentrazioni di virus. In questo modo hanno scoperto che è sufficiente una dose molto piccola (in termini tecnici – 3.7 mJ/cm 2), del tutto uguale a quella emessa per qualche secondo da una lampada UV-C posta a qualche centimetro dal bersaglio, per rendere innocuo il virus. Ma c’è di più. Questa piccola dose è sufficiente anche per le alte concentrazioni di virus. Il dato è particolarmente importante perché imprenditori, ma anche i gestori di locali potranno utilizzare questo strumento per sanificare i propri locali.
Coronavirus e raggi solari: cosa succede con il solleone?
Grazie ai risultati di questo studio, i ricercatori hanno anche avuto strumenti per validare un’altra situazione importante del rapporto tra Covid e i raggi ultravioletti. Hanno fatto questo analizzando uno studio parallelo che indaga il modo in cui i raggi ultravioletti emessi dal Sole possano incidere sulla pandemia. La ricerca è stata coordinata da INAF e Università degli Studi di Milano. L’ipotesi di partenza è che gli ultravioletti naturali possano inattivare il virus presente in aerosol nell’aria, attraverso le goccioline di Flūgge o droplet. Il team di lavoro ha confermato che specie in estate quando le emissioni solari sono molto forti sono sufficienti pochi minuti perché la luce ultravioletta del Sole riesca a rendere inefficace il virus. Questa ipotesi è già stata dimostrata dal Laboratorio di Biodifesa del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti.
“Il nostro studio sembra spiegare molto bene come la pandemia di Covid-19 si sia sviluppata con più potenza nell’emisfero nord della Terra durante i primi mesi dell’anno e ora stia spostando il proprio picco nei Paesi dell’emisfero sud, dove sta già iniziando l’inverno, attenuandosi invece nell’emisfero nord”. Fabrizio Nicastro è ricercatore INAF.
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