I compagni di scuola di Steve pensavano che fosse un supereroe perché non piangeva mai per una forte pallonata o una caduta dalla bicicletta, non diceva nemmeno ‘ahi’. Fare a botte con lui, all’intervallo, era quasi un rito, tutti volevano mettere ko il bambino che pareva rivestito di gommapiuma. In questa storia, in realtà, non centrano forze soprannaturali o cosmiche come per i supereroi dei fumetti: il ‘superpotere’ di Steve arriva da una mutazione in un gene, (l’SCN9A) che blocca completamente la trasmissione del dolore, oltre che dell’olfatto e, in alcuni casi, anche della sudorazione. Come lui, nel mondo, solo una trentina di persone convive con l’insensibilità congenita al dolore (o analgesia congenita), malattia rarissima da solo un caso su un milione. Fareste a cambio? In molti, di getto, risponderebbero di sì, che forse sarebbe bello ignorare gli acciacchi dell’età, ballare dimenticandosi del mal di schiena o correre su quel ginocchio malandato che causa problemi da anni. Chiedetelo a loro, vi risponderebbero che no, fare a cambio non conviene perché anche questa storia ha la sua kriptonite, a forma di ossa, muscoli, pelle, articolazioni: benché il cervello non riesca a leggere il male che fanno, sul corpo restano infatti lividi, graffi, contusioni e fratture che, negli anni, li portano a gravi disabilità.
Quando ci vediamo su Skype la prima volta (lui dallo stato di Washington, dove vive) nello schermo del computer fa capolino la testa curiosa di una bambina. E’ una dei tre figli che Steven Pete ha desiderato, mettendo in scacco i dubbi sollevati della genetica. «Se si sbucciano un ginocchio, il dolore lo sentono eccome! Sono portatori del gene recessivo, significa che potrebbero avere dei figli con la mia stessa malattia, ma solo con qualcuno che è portatore come è accaduto ai miei genitori». Steve, a 33 anni, cammina più lentamente degli altri papà per l’artrite causata delle molte fratture d’infanzia, telefona spesso ai medici («anche se, lavorando in clinica, sono quasi ‘raccomandato’») e si muove con prudenza perché negli anni ha imparato a intercettare i pericoli da cui difendersi.
Non per il dolore, quello non lo sente. Ma se una pentola scotta, l’ustione sulla mano rimane, se una caduta è brutta, l’osso si rompe lo stesso. «Ora ho due vertebre fratturate, l’ho scoperto in un controllo di routine. Sai che non ho idea di come sia successo?», si prende in giro. A scoprire la CIP sono stati i genitori, quando aveva quattro mesi. Stava mettendo i dentini e si masticò la lingua, quasi staccandone un pezzo: non pianse ma un rivolo di sangue dalla bocca fu il segnale che qualcosa non andava.
La diagnosi genetica definitiva arriva solo nel 2012, dai laboratori del London Pain Consortium. Prima di allora, lui aveva già imparato a convivere con la sua ‘immunità’, giocando con il casco protettivo sulla testa o rinunciando allo skateboard. Con l’amico Paul Waters del Kent (UK), anche lui insensibile al dolore, ha avviato il sito thefactsofpainlesspeople.com e una community su Facebook. «Abbiamo raggiunto una decina di persone come noi, e centinaia di famigliari e genitori coinvolti in questa strana malattia – spiega – E’ giusto condividere la nostra storia, anche molti medici non sanno che cosa sia: da ragazzino fui portato via dai servizi sociali perché sospettavano che fossi vittima di maltrattamenti domestici».
Per il futuro, un progetto per lo sviluppo di protezioni speciali e segnalatori di pericoli per chi condivide la sua malattia. La bambina si arrampica sulle spalle del papà, con energia, e mi saluta. Chissà se a un papà diverso, mi chiedo, avrebbe strattonato la pelle facendogli dire ‘ahi’. Se non senti dolore, mi viene da pensare, non senti la paura. Chissà come dev’essere avere un papà ai tuoi occhi ‘coraggiosissimo’. «Oh, la paura invece c’è: so di non potermi difendere dai pericoli che non vedo, come le infezioni. L’idea dell’appendicite mi manda letteralmente fuori di testa!».
Cinzia Pozzi