Colpisce una donna su mille, generalmente dopo i 40 anni: il 90% dei pazienti è femmina. In Italia convivono con questa condizione circa 13.000 persone. Quasi la metà di loro aspetta almeno un anno prima di rivolgersi a un medico, perché i sintomi sono comuni a molti altri problemi. Così accade che tra la prima visita e la diagnosi passano in media un paio d’anni.
I sintomi
I sintomi più comuni sono stanchezza, prurito, gonfiore addominale e problemi digestivi. Come si diceva molto simili a tante altre patologie.
Con nuove tecniche la diagnosi può essere più facile
«La CBP, una volta chiamata cirrosi biliare primitiva, è stata studiata approfonditamente a partire dagli anni Cinquanta. Fu definita “cirrosi”, perché molti pazienti avevano appunto la cirrosi epatica» spiega Pietro Invernizzi, Professore Associato in Gastroenterologia all’Università di Milano-Bicocca. «Ora – continua Invernizzi – questa definizione è diventata obsoleta. Con le attuali tecniche diagnostiche, infatti, la CBP può essere rilevata molto più precocemente e la fase avanzata, con manifesta cirrosi epatica, si ha per fortuna solo in una minoranza di casi. Il cambio di nome sancito nelle ultime linee guida europee ha permesso anche di superare lo stigma che la parola “cirrosi” porta con sé visto che è collegata all’alcolismo, che non ha invece nulla a che vedere con la malattia».
L’alcol non c’entra niente
«Le malattie del fegato fino ad oggi sono state associate ad errati stili di vita e soprattutto all’abuso di alcool – gli fa eco Ilaria Ciancaleoni Bartoli, direttore di OMaR, l’Osservatorio Malattie Rare. – Chi ne è colpito viene guardato con sospetto, come se avesse colpa della sua patologia. Ma si può avere una malattia del fegato anche senza aver avuto alcun comportamento a rischio. Una corretta comunicazione potrebbe quindi sollevare chi ne è affetto almeno dallo stigma sociale».
Perché colpisce più le donne
«In generale le malattie autoimmuni si sviluppano più spesso nelle donne anche se le ragioni sono ancora poco chiare – spiega Vincenza Calvaruso, ricercatore dell’Università di Palermo. – Nonostante la malattia colpisca una percentuale di pazienti ancora in età fertile, non ci sono evidenze scientifiche che la CBP possa avere un impatto negativo sulla possibilità di rimanere incinta o portare a termine con successo una gravidanza. Chiaramente questo nelle pazienti dove la malattia è tenuta sotto controllo e non ci sono danni epatici dovuti all’insorgenza di cirrosi»
Il Registro Nazionale dei Pazienti
L’Italia gioca un ruolo di primo piano nella ricerca sulla malattia. Da poco si è costituito il PBC Group Study. Il suo obiettivo è quello di creare il Primo Registro Nazionale dei Pazienti con il coinvolgimento di tre centri italiani.
I nuovi farmaci
I farmaci innovativi attualmente a disposizione anche in Italia sono un’opportunità di cura molto efficace. Rispetto alla terapia di base con acidi biliari, cioè l’acido ursodesossicolico e in Italia anche l’acido tauro-ursodesossicolico, agiscono a livello immunologico e metabolico. Sono quindi in grado di prevenire il formarsi di fibrosi epatica, ma soprattutto migliorano il flusso biliare del fegato, prevenendone l’accumulo e il ristagno all’interno dell’organo.
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