Nel 1995 dire di avere un tumore era come mettersi addosso un cartello con la scritta «spacciato». Per questo motivo quando successe a me non dissi nulla a nessuno. Fino ad ora non ne avevo mai parlato pubblicamente, anche perché nel corso degli anni, dal momento della diagnosi fino a quello dell’ultimo intervento, ho sempre avuto paura che chi mi stava vicino mi considerasse solo come una malata, impedendomi di continuare a lavorare. In quel periodo, infatti, la mia carriera era ben avviata ed ero tornata dagli Stati Uniti con l’intenzione di dare vita ai miei progetti qui in Italia.
In questo articolo
La diagnosi di carcinoma intraduttale
Quel «nocciolino» nel seno, però, rimescolò le carte in tavola. Mi accorsi della sua presenza per caso, mentre mi toccavo il décolleté che, tra l’altro, si è sempre distinto per la sua abbondanza. Mi accorsi subito che c’era qualcosa di strano in quella pallina e, pertanto, mi recai subito in un centro prevenzione tumori di Firenze. Dopo una breve anamnesi i medici mi sottoposero a un’ecografia che evidenziò la presenza di alcune micro calcificazioni, prodotte in maniera naturale dal mio seno. La diagnosi non era, però, ancora certa e, tra chi optava per l’asportazione dell’intero seno e chi mi consigliava invece una strada più conservativa, io scelsi di rivolgermi a un altro specialista per avere un secondo parere. Proprio in quel periodo anche una mia cara amica si era ritrovata ad affrontare lo stesso problema e mi aveva consigliato di prenotare una visita con Paolo Veronesi, figlio del grande Umberto. E così feci. Mi recai da sola a Milano; avevo paura, non sapevo quale sarebbe stato l’esito della visita, ma volevo vivere il viaggio in maniera profonda e introspettiva.
In ospedale mi fecero fare gli esami di rito e Paolo venne da me con una diagnosi precisa: carcinoma intraduttale. Avevo realmente un tumore al seno e dovevo sottopormi a un intervento la mattina seguente. Non ero psicologicamente pronta a una prova del genere. Ero frastornata, confusa; non avrei mai immaginato di dover affrontare un’operazione a poche ore dalla diagnosi. Non avendo con me indumenti adatti per il ricovero, dovetti andare a comprare qualcosa. Nel negozio fui derubata del portafogli… Una giornata da dimenticare.
Quadrantectomia e alcuni cicli di radioterapia
Dopo l’intervento mi svegliai e ai piedi del letto trovai Paolo, che mi aveva operata, seduto su una sedia in attesa del mio risveglio. Fu una scena molto tenera: lui sapeva che, sebbene avessi scelto di affrontare il male da sola, la presenza di una persona cara avrebbe addolcito quei momenti. L’intervento al quale mi sottoposi, chiamato quadrantectomia, mi privò non solo del tumore ma anche di quasi tutta la mammella sinistra. Tutto andò bene e l’esito dell’esame istologico del nodulo prelevato decretò la cura, che, fortunatamente, richiese solo alcuni cicli di radioterapia. Non fu, comunque, una passeggiata, perché a quei tempi, a differenza di oggi, la radioterapia era una pratica abbastanza invasiva.
Ricordo che, mentre attendevo il mio turno in ospedale, molte donne raccontavano di aver lasciato il lavoro o di non riuscire a prendersi più cura di se stesse. A me, invece, il cancro non cambiò la quotidianità: la mattina presto mi sottoponevo alla radio e, poi, mi recavo sul set. Il lavoro per me era energia e la prova concreta che stavo avendo la meglio nella lotta contro il tumore. E così è stato. Da allora, ogni anno, non manco alle visite di prevenzione, fondamentali per tenere monitorata la mia situazione ma indispensabili per qualunque donna, così da riuscire eventualmente a prendere in tempo quel «nocciolino» per sconfiggerlo definitivamente.
Cinzia Th Torrini