In Italia sono sempre più numerose le persone “allergiche al lavoro”. Non stiamo parlando dei furbetti che timbrano il cartellino per poi sgattaiolare al bar o a fare shopping, ma delle centinaia di persone che sviluppano una reazione allergica a sostanze con cui entrano in
contatto quotidianamente sul posto di lavoro.
Molte le figure professionali coinvolte
Quello che si pensava essere un problema confinato a pochi settori, come quello dei parrucchieri e delle estetiste, sta in realtà dilagando fino a coinvolgere le figure professionali più disparate. C’è l’istruttore di nuoto allergico al cloruro d’alluminio delle
piscine, l’addetto del fast food con la pelle arrossata per il contatto con la salsa piccante al chili, la badante che avverte prurito dopo aver maneggiato i farmaci e il tabaccaio
che sviluppa una dermatite per colpa dei biglietti “Gratta e Vinci”.
In Italia sono circa 600 i casi di dermatite professionale denunciati ogni anno, ma in realtà si stima un sommerso molto più corposo, dato che solo negli ultimi otto anni sono state scoperte 172 nuove sostanze allergeniche, di cui ben 119 correlate a dermatiti in ambiente lavorativo. Spesso però non se ne parla, anche per colpa della crisi: molti lavoratori decidono infatti di tacere per paura di perdere il posto. A denunciarlo sono gli esperti della Società Italiana di Dermatologia Allergologica Professionale e Ambientale (SIDAPA).
Il parere dell’esperto
«I pazienti non dovrebbero temere ripercussioni lavorative e, in caso di sintomi di dermatite, dovrebbero rivolgersi al dermatologo per una corretta diagnosi e per sapere come curarsi e proteggersi al meglio», ricorda Alberico Motolese, Direttore della Dermatologia presso l’Azienda Ospedaliera Macchi di Varese.
Grande cautela con i cosmetici
Un terzo dei nuovi allergeni «appartiene alla lista degli ingredienti usati in ambito cosmetico, indicati genericamente come “air conditioning agents”: sono sostanze definite idratanti, umettanti, emollienti e agenti protettivi che si possono trovare in tinture per capelli, smalti per unghie, cere depilatorie, prodotti per il corpo e che mettono a rischio estetiste, parrucchieri, addetti dei centri benessere», spiega Nicola Balato, professore associato di dermatologia all’Università Federico II di Napoli. «La probabilità di dermatiti professionali – prosegue – è alta anche in medici, infermieri e badanti che devono somministrare farmaci ai pazienti: le polveri che si depositano sulla cute toccando le pillole o spezzandole possono provocare irritazioni, e sono numerosi gli operatori sanitari ipersensibili per contatto a medicinali molto diffusi come le benzodiazepine, gli ACE-inibitori, i beta-bloccanti».
Occhio alle nuove allergie
Oltre agli impieghi che storicamente si associano alle dermatiti allergiche da contatto, tuttavia, oggi è necessario considerare anche nuove professioni ritenute in passato meno esposte alle reazioni allergiche, che si sono invece dimostrate a rischio. «Alcuni nuovi allergeni – precisa Balato – sono contenuti in erbicidi usati dai giardinieri o nelle gomme utilizzate dagli idraulici, mentre fanno capolino nuove allergie che riguardano gli addetti alla ristorazione: chili e camomilla hanno già provocato casi di dermatite da contatto in addetti dei fast food e baristi. Riguarda infine i tabaccai, ma anche gli incalliti amanti del “Gratta e Vinci”, la dermatite da contatto indotta dal nickel contenuto nei rivestimenti del tagliando della fortuna».
Cosa fare?
Diminuire le possibilità di contatto con gli allergeni è il modo migliore per ridurre l’incidenza delle dermatiti professionali: dunque largo a guanti e creme da usare come protezione
per mantenere la pelle sana. La prevenzione, però, «dovrebbe e potrebbe iniziare anche prima della firma sul contratto di lavoro», ammonisce Cataldo Patruno, consigliere SIDAPA. «Se un individuo ha una storia di dermatite atopica nell’infanzia è più a rischio di
allergie. Una ragazza che sia stata atopica da bambina e che diventi estetista ha un’elevata probabilità di sviluppare una dermatite da contatto: sarebbe come se mandassimo a lavorare in una cella frigorifera un asmatico, le crisi sarebbero assicurate. Per questo –
conclude l’esperto – potrebbe bastare una consulenza dermatologica in giovane età a chi ha avuto problemi di atopia per indirizzare ciascuno verso impieghi che non siano “pericolosi”».
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