Si chiama sindrome di Stoccolma ed è una condizione psicologica che induce le persone vittime di violenza, abusi o rapimenti a provare sentimenti positivi nei confronti dell’aggressore. Il nome non è casuale. L’espressione è stata usata per la prima volta da un agente speciale dell’FBI, dopo un episodio avvenuto in Svezia nel 1973. Quattro impiegati di una banca, tenuti in ostaggio da due rapinatori per sei giorni, dopo il rilascio, espressero sentimenti di solidarietà e protezione verso i sequestratori tanto da testimoniare in loro favore.
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In quali circostanze si verifica la sindrome di Stoccolma?
Com’è possibile che una persona vittima di maltrattamenti o abusi arrivi a voler difendere l’assalitore? «Ci devono essere determinate circostanze. La prima è che ci sia da parte della vittima una minaccia percepita di tipo fisico o psicologico senza via di fuga. Dopodiché entra in gioco la percezione di gentilezza da parte del rapitore, aggressore o sequestratore. In ultimo deve esserci un isolamento, quindi il fatto che la vittima venga completamente sradicata dai propri contesti sociali e lavorativi. Deve essere sola, in luoghi che non conosce e dai quali non può fuggire», interviene Giulia Petrillo, psicologa al Primus Forlì Medical Center.
Cosa succede a livello psicologico?
A livello psicologico si genera una sorta di totale attaccamento nei confronti del sequestratore. «La persona viene allontanata da tutto ciò che conosce, capisce che la sua vita è in pericolo e sviluppa una sorta di istinto di sopravvivenza. Oltre a questo, l’abusante talvolta mette in atto gesti di affetto nei confronti della vittima che inizia a sviluppare un senso di gratitudine. Maggiore è la gratitudine che la vittima sente, più diventa forte il legame emotivo che si crea tra i due. Talvolta l’aggressore arriva anche a condividere con la vittima momenti di sofferenza o malessere, quindi si innesca anche una sorta di empatia» continua la psicologa.
Una condizione più frequente nelle donne e nei bambini
La sindrome di Stoccolma può emergere sia in situazioni di abuso di minori o donne sia in alcuni membri di culti religiosi, come sette, o prigionieri di guerra. Secondo il dato emesso dall’FBI, oggi sono circa l’8% i casi di sequestro di persona coinvolti in questa condizione. Petrillo precisa che «non è una sindrome così comune come si crede, ma è più frequente nei bambini e nelle donne perché uno dei fattori predisponenti è la personalità. Una personalità meno strutturata e forte, come quella dei ragazzini, è sicuramente più soggetta a sviluppare questa condizione psicologica. Oltre a questo, tendenzialmente i sequestratori sono uomini ed è anche per questo che aumenta la probabilità».
Come si cura la sindrome di Stoccolma?
Come curarla? I “tempi di recupero” hanno una durata variabile che dipende dalla lunghezza del sequestro e dalla forza con la quale si è creato il legame. «Si fa una psicoterapia, legata alla cura delle dipendenze affettive, al ridimensionamento dell’evento accaduto e dell’aggressore. In alcuni casi si associa a un trattamento farmacologico perché può avere effetti quali fobie, disturbi del sonno, incubi, flashback e a volte depressione. Ciò su cui si lavora è anche il supporto dei familiari», spiega la specialista.
Crea dipendenza, ma non è considerata una patologia clinica
Nonostante sia definita una sindrome che crea dipendenza, non è considerata una patologia clinica. Questo perché non presenta i criteri necessari per essere inserita nei manuali di psichiatria. Durante la stesura della V^ edizione del DSM (manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) gli esperti hanno preso in considerazione l’idea di inserirla all’interno del disturbo da stress post traumatico.
«Su questo la comunità scientifica è ancora in dibattito. Siccome non si riescono a rilevare criteri ben definiti, è ancora difficile definirla malattia psichiatrica, anche perché a livello di terapia è trattata come una sindrome da dipendenza emotiva affettiva. Molto fa il tempo che passa dall’evento, la vicinanza dei familiari e il ritorno alla vita quotidiana» conclude la psicologa.