No alle riunioni in pausa pranzo, ai lavori non pagati, alle chiamate del capo la domenica. No ai favori per l’amica mai ricambiati, alla suocera che vuole le chiavi di casa. «Riuscire a dire di no, quando serve, implica un buon grado di consapevolezza di sé e di maturità: queste doti guidano le scelte di vita, migliorando il benessere personale», spiega Giuseppe Lavenia, psicologo e psicoterapeuta, docente di psicologia del lavoro e delle organizzazioni all’Università degli Studi di Ancona.
Saper mettere dei paletti alla propria disponibilità e avere il coraggio di sottrarsi a richieste non gradite ci rende persone migliori? Se sappiamo farlo nel modo giusto, sì. Siamo portati a pensare il contrario. Temiamo il giudizio, la solitudine, il senso di colpa perché, culturalmente, si associa una risposta negativa a egoismo, chiusura, menefreghismo. Invece, per raggiungere quel grado di serenità e pace con se stessi e gli altri che ci consente di stare bene, bisogna imparare anche a dire di no, pur rischiando di apparire antipatici, irriconoscenti o sgradevoli.
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I rischi dell’eccessiva compiacenza
«Il desiderio di compiacere gli altri deriva dal bisogno di sentirsi apprezzati: in ambito privato è legato alla paura dell’abbandono, in quello lavorativo al bisogno di riconoscimento, di sentirsi all’altezza della situazione», spiega lo psicologo. «In ambito affettivo e familiare, sono più spesso le donne a farsi carico dei bisogni altrui. Per la forte inclinazione emotiva, certamente, ma anche per un retaggio culturale antico». Poi c’è quel senso naturale di gratificazione. Secondo Klodiana Lanaj, esperta in management all’Università della Florida, soddisfare una richiesta di aiuto dà un’iniezione di autostima che ci ricarica positivamente. Ma alla lunga presenta il conto.
Diverse ricerche sottolineano come la compiacenza sia pericolosa. «È un atteggiamento di eccessiva cortesia e garbatezza, ai limiti della passività, che condiziona l’affermazione dei propri diritti», prosegue Lavenia.
Dilatando all’infinito il tempo per gli altri si restringe quello dedicato a sé, ai propri desideri, per stare dietro a faccende che non sono scelte personali, ma frutto di un ricatto emotivo autoindotto e che così, a lungo andare, cominciano essere vissute con ostilità, mentre emerge anche la consapevolezza di non poter più tornare indietro. Con il tempo, la qualità dell’aiuto ne risente. Le risorse che abbiamo a disposizione sono limitate: se si esagera con la disponibilità, si rischia di essere troppo affaticati per riuscire a essere davvero d’aiuto. Rendendosi indispensabili per poter essere accettati si affollano le giornate di impegni ingestibili, cercando continuamente dagli altri una gratificazione e un riconoscimento che non sono garantiti, anzi.
La sindrome di Wendy
Non è escluso che amici, familiari colleghi alzino sempre di più l’asticella delle pretese, alimentando una relazione sbilanciata in cui uno è al servizio dell’altro. E in una relazione di coppia, questo può essere l’anticamera di una dipendenza affettiva. La chiamano la sindrome di Wendy, dal nome della bambina che salvò Peter Pan, il ragazzo che non voleva crescere. «Indica l’attitudine a soddisfare ogni richiesta del partner», afferma lo psicologo, «caricandosi di tutte le responsabilità in una relazione in cui l’altro è incapace di svolgere un ruolo adulto, innescando un meccanismo di reciproca dipendenza».
Dire no non toglie valore alla persona
Del vantaggio di un rifiuto parla anche Liza Marklund, scrittrice e giornalista svedese, che scrive: «Abbiate il coraggio di essere sgradevoli. Non cercate di compiacere a tutti i costi». Il messaggio è chiaro: saper mettere dei paletti alla propria disponibilità non toglie valore alla persona, al contrario. Vuol dire riappropriarsi della propria capacità decisionale: un no convinto è più autentico e degno di rispetto di un sì detto controvoglia, solo per non dispiacere a nessuno e non avere problemi. «Riconoscere i propri limiti e saper gestire le richieste degli altri è un segnale di chiarezza di idee e di obiettivi», sottolinea Lavenia. «Il rispetto di sé e dei propri bisogni è il primo passo per instaurare relazioni sane ed equilibrate. Alla fine, queste ne gioveranno e quelle che andranno perse per un no non accettato forse non erano così vere».
L’arte del rifiuto in tre passi
Prendere tempo
Provate a non dire subito sì, ma neanche no. Meglio: «ci devo pensare un attimo». Spiega lo psicologo: «Di fronte a una richiesta, prima c’è una rapida valutazione mentale della situazione, poi subentra la componente emotiva legata alla proposta, infine si attiva un processo cognitivo di selezione delle priorità, che determina una risposta affermativa o negativa. In alcuni casi, però, è difficile mettere in atto un processo decisionale che tenga conto di tutte queste componenti, sia cognitive sia emotive, perché queste ultime hanno il sopravvento… Faccia a faccia con l’interlocutore, si vive l’urgenza della richiesta e si è portati ad accondiscendere per sentirsi vicini a chi parla o per placare la sua preoccupazione, senza riuscire a valutare a mente fredda l’effettiva possibilità di soddisfare la sua domanda, ragionando sulle conseguenze dell’impegno. Con il rischio di pentirsi quando ormai è troppo tardi. Meglio prendersi un lasso di tempo compatibile con la richiesta fatta».
Per esempio, rispetto alla richiesta del capo di terminare un compito prima della scadenza prefissata, tratteniamoci dalla tentazione di accontentarlo subito. È bene valutare alcuni aspetti: è un’eccezione o un’abitudine? Il principale adduce ragioni valide per questa richiesta? Venirgli incontro in questa circostanza può «farci comodo» in qualche modo in futuro? Tutte queste riflessioni non possono essere vagliate in pochi secondi.
E se inizialmente ci si era dimostrati disponibili e poi si cambia idea? Legittimo. Va spiegato con tatto: «Ti avevo detto di sì, ma devo rinunciare». Non è mai troppo tardi per ripensarci. «Riconoscendo di aver sbagliato ad accettare una proposta, causeremo meno danni che proseguendo il lavoro senza voglia, motivazione, impegno o il tempo necessario», spiega Lavenia.
Motivare la risposta
Tornando all’esempio del capo pretenzioso, gli si può ricordare ciò che si era pattuito inizialmente, garantendo che si consegnerà entro la scadenza già concordata, senza farlo in maniera sbrigativa, altrimenti ne risulterebbe compromesso il risultato, anche esponendo una propria organizzazione della giornata, che non può essere stravolta all’ultimo secondo. Motivare, però, non vuol dire giustificare: siamo noi che decidiamo fino a che punto mettere in pubblico ragioni, scuse o spiegazioni. «Abbiamo diritto di rifiutare una richiesta, proposta o iniziativa che porta via troppo tempo o non conviene per diversi motivi», sottolinea l’esperto. «L’altro non deve “approvare” la nostra decisione, ma accettarla, perché ciascuno di noi ha il diritto di decidere delle proprie risorse e del proprio tempo. Questo non va scambiato per egoismo o eccessiva rigidità perché la capacità decisionale rientra nei diritti inalienabili della persona».
Non cedere ai sensi di colpa
C’è chi ci toglierà il saluto e chi ci rinfaccerà favori fatti in passato. È bene ribadire con delicatezza la propria posizione. «Ricordiamoci che sono le persone coerenti con se stesse, sincere nell’esprimere quello che pensano e non manipolabili, ma ferme nelle proprie decisioni, anche se scomode e impopolari, quelle che meritano rispetto e considerazione», prosegue Lavenia.
«Dire di no, specialmente se non si è abituati, è una scelta coraggiosa, che richiede coerenza nel tempo. All’inizio sarà difficile non farsi prendere dai dubbi o dai sensi di colpa, ma soprattutto dalla paura di perdere la stima o l’affetto dell’altro, ma è importante non cedere, se si è convinti della propria decisione. La coerenza è apprezzata in un ambiente di lavoro che ha a cuore il benessere dei collaboratori. Dire di no a una richiesta urgente alle otto di sera non significa che non si riconosce la necessità concreta, ma che si è davvero impossibilitati a compiere quell’azione e forse serve un’organizzazione diversa. In questo caso il no può essere costruttivo anche per gli altri».