Almeno una volta nella vita lo abbiamo pensato tutti: voglio vendicarmi! Sul lavoro, in amore, con un amico, prima o poi tutti ci sentiamo traditi e pensiamo di aver subito un torto, ma tra il dire e il fare… Abbiamo chiesto che cos’è la vendetta e come si manifesta all’esperto di OK il professor Osmano Oasi, psicologo, psicoterapeuta, membro della Società Psicoanalitica Italiana e ricercatore in psicologia dinamica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore (puoi chiedergli un consulto qui). È autore del libro “Vendicatività e vendetta”.
Da che cosa ha origine l’impulso a vendicarsi?
Il desiderio o l’azione del vendicarsi sono da sempre presenti nella storia dell’umanità: basti pensare alla Bibbia (Caino e Abele). Non in tutte le culture, tuttavia, sono percepiti in maniera uguale. Esistono paesi dove leggi e struttura sociale non permettono né giustificano questo tipo di comportamento, mentre altre realtà culturali lo tollerano meglio, considerandolo parte integrante del comportamento sociale. La vendicatività, o tendenza al
comportamento vendicativo, descrive una condizione psicologica ben caratterizzabile, che spinge l’individuo che la prova a voler riparare a un torto subito. Il vecchio concetto di «pan per focaccia», per intenderci. Alla vendicatività sono correlate delle emozioni ben precise, in particolare la rabbia, e dei tratti di personalità ben definiti: nello specifico il narcisismo e la carenza di empatia. Al contrario, l’apertura verso il prossimo e le
culture diverse, unitamente all’empatia, sono caratteristiche delle persone poco o per nulla vendicative.
Siamo tutti vendicativi?
Provare un desiderio di vendetta dopo aver subito un torto non è legato a una condizione
psicopatologica: è normale pensare di volersi riscattare. È mettere in pratica questo desiderio che fa la differenza. Tutti abbiamo una tendenza vendicativa, perché tutti prima o poi nella vita sentiamo di subire un danno, grande o piccolo che sia. Dalla multa presa per aver superato il limite di appena 10 chilometri all’ora al licenziamento senza giusta causa. In entrambi i casi il primo desiderio è spesso quello di volersi vendicare, ma la vendetta vera e propria si attiva quando si supera quel confine che divide il pensiero (o il
desiderio) dall’azione, con l’obiettivo di recare lo stesso dolore, se non maggiore, rispetto a quello provato, nei confronti del vigile o del proprio datore di lavoro.
La vendetta è davvero un piatto che va consumato freddo?
Raramente chi si vuole vendicare lo fa subito dopo aver subito un torto. Questo perché l’altro aspetto caratterizzante la tendenza alla vendicatività è il fatto di «rimuginare» sul
danno subito, covando sempre più rabbia: ci si rode dentro, tanto da far diventare la vendetta una vera e propria ossessione. In particolare, chi soffre di disturbo narcisistico della personalità o ha una predisposizione alla «ruminazione» ossessiva potrà sviluppare più facilmente un comportamento vendicativo.
Esiste una predisposizione alla vendetta?
L’impulsività e il discontrollo degli impulsi sono senz’altro collegati al comportamento vendicativo, così come le persone più irascibili e che provano rabbia sia verso se stessi sia verso gli altri sono più predisposte a volersi vendicare quando ritengono di aver
subito un torto.
Se poi vogliamo fare una distinzione di genere, tra maschi e femmine cambia il modo di vendicarsi. In linea di massima, le donne sono più raffinate, mentre gli uomini sono più istintivi. Un classico esempio? L’uomo riga la fiancata della macchina, la donna
preferisce colpire l’immagine e la reputazione della persona nei confronti della quale si vuole vendicare.
Come superare uno stato d’animo tanto intenso?
La cosa importante è la condivisione delle proprie emozioni e dei propri pensieri; non chiudersi, ma parlare con amici e parenti del torto subito in modo da avere un confronto e sentire punti di vista diversi dai propri. Il monitoraggio dei propri sentimenti è fondamentale. Bisogna darsi del tempo per elaborare il torto (la
vendetta è una ferita non elaborata) e cercare modi alternativi per riparare al danno.
Va comunque sottolineato che anche la «passività» non è salutare: non avere la possibilità
di «riabilitarsi» può avere conseguenze sul piano somatico (disturbi psicosomatici) e sul tono dell’umore (episodi depressivi più o meno gravi).
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