Descrivere l’orologio biologico nascosto dentro ognuno di noi è difficile. Più che una parte fisica, è un punto situato all’incrocio dei nervi ottici, proprio dietro gli occhi. Una posizione estremamente sensibile alla luce. Quando al mattino il sole, o i raggi artificiali delle lampade, passano attraverso la retina dell’occhio, si mette in moto dando il via alle principali funzioni fisiologiche che ci servono per affrontare la giornata. Tra queste la produzione di zuccheri, proteine e altre sostanze, come la serotonina, il cosiddetto ormone del buonumore. Quando fa buio, invece, tutto rallenta, tranne la produzione di melatonina, l’ormone del sonno. Per la comunità scientifica lo studio dell’orologio biologico è stato fondamentale per comprendere cosa accade nel cervello di una persona depressa. Chi soffre di questo disturbo, infatti, ha le lancette difettose e vive come se fosse in un continuo jet lag. Se durante il giorno gli stimoli emessi da un sistema circadiano sano aiutano a resistere al sonno e di notte stimolano al riposo, nelle persone con depressione o disturbo bipolare questo ciclo sonno-veglia è danneggiato o addirittura assente.
Tuttavia, per aggiustare un orologio biologico difettoso non si può sostituire un ingranaggio e neppure una pillola è efficace. Piuttosto, bisogna provare a riprogrammarlo. Per farlo gli scienziati studiano e applicano da anni una terapia basata sulla deprivazione del sonno e l’esposizione alla luce.
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Benefici già nella prima settimana
nei pazienti con disturbo bipolare
L’effetto che la deprivazione del sonno ha sulle persone sane e su quelle malate di depressione è agli antipodi. Le prime dopo ore di insonnia si sentono, oltre che sfinite fisicamente, irritabili e di malumore. Le seconde invece si sentono meglio, addirittura vedono aumentare le loro capacità cognitive. Il primo a rilevare il beneficio antidepressivo della deprivazione di sonno fu lo psichiatra tedesco Johann Christian August Heinroth a fine anni Cinquanta. Il medico utilizzò una terapia della veglia per trattare una condizione psichiatrica al tempo definita melancolia, dai tratti molto simili alla depressione moderna. Dalla sua intuizione nacquero gli studi negli anni successivi, dai Settanta ai Novanta, quando si iniziò a capire che il target più adatto al trattamento erano le persone affette da un particolare tipo di depressione, il disturbo bipolare.
«Una persona con disturbo bipolare ha delle fasi depressive, in cui è di cattivo umore, si sente apatico, abulico, ha una visione pessimistica del futuro, sentimenti di incapacità, e poi attraversa delle fasi maniacali in cui è euforico, iperattivo, nervoso», spiega Barbara Barbini, psichiatra dell’IRCCS Ospedale San Raffaele Turro di Milano. «Si tratta di un disturbo strettamente legato all’alternarsi delle stagioni, ma la sua incidenza nella popolazione è piuttosto bassa: la depressione unipolare oscilla intorno al 10%, quella bipolare all’1,8%». L’ospedale milanese ha introdotto l’utilizzo della deprivazione del sonno e della light therapy per la cura della depressione bipolare intorno al 1996. In oltre vent’anni il San Raffaele ha curato circa mille pazienti e i risultati sono stati molto positivi. Il 70% delle persone ha avuto benefici già nella prima settimana, il 55% ha riscontrato ulteriori miglioramenti anche nei mesi successivi.
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Gruppi di 5 pazienti con gli infermieri
«Trattiamo il disturbo bipolare», continua la psichiatra, «con una terapia antidepressiva in fase acuta e una terapia stabilizzante a base di sali di litio o anticonvulsivanti per evitare ricadute. Quando però le ricadute ci sono, si può intervenire con farmaci antidepressivi oppure con la deprivazione di sonno e la light therapy». Il meccanismo su cui si basa la terapia della veglia è la manipolazione del ritmo biologico dei pazienti. «Lo schema terapeutico consiste in tre cicli di deprivazione di sonno, dove un ciclo corrisponde a 36 ore di veglia e una notte di recupero», spiega Barbini. «La veglia è totale e viene svolta in ospedale con il supporto degli infermieri del reparto, formati per svolgere questo ruolo. Insieme ai pazienti giocano a carte, guardano film, leggono, si intrattengono. Ogni gruppo settimanale non va oltre le cinque persone».
La reazione dei pazienti quando viene proposta loro questa particolare terapia varia. Spesso, racconta la psichiatra, sono spiazzati, ma poi accettano di buon grado perché è una strada che talvolta può evitare il ricorso agli antidepressivi. La deprivazione di sonno è in grado di cambiare l’equilibrio dei neurotrasmettitori nelle aree che regolano l’umore, serotonina in primis, ripristinare la loro normale attività e rafforzare le connessioni. È come se si rimettesse in moto l’orologio lento, mal funzionante. Tuttavia, la sola applicazione della terapia della veglia non basta, perché anche se i risultati sull’umore sono immediati, il rischio di ricadute è alto. Perciò l’intervento si accompagna sempre alla light therapy, oltre che all’assunzione di medicinali stabilizzanti, diversi e meno «pesanti» degli antidepressivi utilizzati nelle fasi acute.
Lampade 20 volte più potenti
di quelle normali
«Intorno alle tre di mattina durante la notte di deprivazione di sonno e appena svegli dopo la notte di recupero, viene effettuata una seduta di trenta minuti di terapia della luce in una stanza estremamente luminosa. Quando si entra sembra di essere nel deserto a mezzogiorno», riprende Barbini. «I pazienti si siedono su poltrone posizionate contro il muro a circa 90 centimetri dalle lampade e possono leggere, parlare, intrattenersi, non devono necessariamente fissare la luce. L’importante è che non indossino occhiali da sole». Le lampade utilizzate nella light therapy hanno un’intensità pari a 10.000 lux. Per comprenderne la potenza, basti pensare che l’intensità media di una luce comune che illumina una stanza è di 500 lux, quindi venti volte meno intensa. Nonostante la potenza delle lampade, la luce è ben tollerata dagli occhi ed è priva di raggi ultravioletti o infrarossi, quelli che danneggiano la vista.
«Questo trattamento nasce in nord Europa, dove le problematiche di luminosità ambientale legate alla latitudine generano molti disturbi depressivi stagionali», prosegue l’esperta. «Funziona perché agisce su una struttura cerebrale profonda, che è la ghiandola pineale, dove viene prodotta la melatonina, un ormone che regola il sonno e la disponibilità di alcuni neurotrasmettitori, come la serotonina. Ciò comporta un miglioramento dell’umore e un accelerazione della risposta al trattamento antidepressivo».
Questo approccio può evitare il ricorso a farmaci antidepressivi? «Non è la regola», conclude la psichiatra. «Ma abbiamo circa un 10% di pazienti trattati nella fase acuta con deprivazione di sonno, terapia della luce e farmaco stabilizzante, senza dover ricorrere agli antidepressivi. Non conta tanto la gravità della depressione, ma quanto e come risponde il paziente secondo le sue caratteristiche fisiologiche».
Allo studio anche per la forma unipolare
Se l’utilizzo della terapia della veglia combinata alla light therapy è piuttosto diffusa in Nord Europa, Francia, Germania e anche Stati Uniti, non si può dire la stessa cosa dell’Italia, dove a praticare questi due trattamenti insieme sono in pochi. Gli specialisti dell’Ospedale San Raffaele di Milano e quelli della Casa di cura Villa Santa Chiara di Quinto (VR). Il target per ora rimangono i pazienti affetti da disturbo bipolare. Ma l’interesse per altre applicazioni cresce e negli ultimi anni scienziati hanno condotto studi per l’utilizzo delle stesse terapie nel trattamento della depressione unipolare.
Tra questi, un lavoro pubblicato su The Journal of Clinical Psychiatry nel 2012, dove i medici dell’Università di Copenhagen hanno analizzato gli effetti della deprivazione di sonno, della luce del mattino e di orari sonno-veglia regolari su pazienti con depressione unipolare. Dei 75 partecipanti allo studio, metà hanno fatto trattamento con antidepressivo e cronoterapia, metà antidepressivo ed esercizio fisico quotidiano. Dopo la prima settimana, il 41% della parte trattata con cronoterapia aveva visto i sintomi dimezzarsi, rispetto al 13% del gruppo che svolgeva attività fisica. Nelle settimane successive, i risultati sono migliorati ulteriormente.
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