L’adolescenza è il periodo delle forti emozioni, della ricerca di indipendenza e libertà, della formazione della propria personalità e della costruzione di legami indimenticabili. È sempre stato così, almeno fino a quando il Covid-19 non è entrato nelle case degli italiani, stravolgendone la vita, le abitudini, le relazioni. La pandemia ha costretto migliaia di giovani a rintanarsi nelle loro camerette e a trascorrere buona parte della giornata dietro allo schermo di un device, privandoli della possibilità di frequentare la scuola, stringere amicizie, provare nuove esperienze, vivere la quotidianità. Nel 2020, e ancora oggi in alcune province d’Italia, i nostri ragazzi hanno infatti conosciuto un nuovo modo di apprendere e studiare, ritrovandosi a fare i conti con la cosiddetta DAD, cioè la didattica a distanza. Ma che impatto ha avuto, e continua ad avere, questa modalità di insegnamento sui teenager?
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L’impatto della didattica a distanza dal punto di vista delle relazioni
«L’ambiente scolastico e il contatto con i coetanei hanno sempre contribuito a formare l’adolescente dal punto di vista dell’identità sociale» interviene Giuseppe Riva, Direttore del Laboratorio sperimentale di ricerche tecnologiche applicate alla Psicologia all’Istituto Auxologico Italiano e Professore ordinario di Psicologia all’Università Cattolica di Milano. «La pandemia e tutto ciò che ne è conseguito, DAD compresa, hanno tolto il legame con il luogo fisico della classe, portando i ragazzi a sentirsi più soli e isolati. Le relazioni online sono molto diverse da quelle faccia a faccia e questo, alla lunga, può creare un senso di disorientamento e di disagio. Inoltre non si riesce a creare una relazione tra docente e studente che passi attraverso la comunicazione non verbale e lo stesso vale per la classe, con la quale manca un legame che supporti l’attività didattica».
L’impatto della didattica a distanza dal punto di vista dell’apprendimento
A livello di relazioni e apprendimento, con la didattica a distanza entrano in gioco due processi. «Il primo riguarda l’attivazione dei neuroni specchio, che hanno un ruolo centrale nel generare empatia, essenziale per qualunque relazione e in particolare nel mondo della didattica. Questi neuroni si attivano attraverso il riconoscimento del movimento umano, che avviene solitamente in classe o, in generale, a scuola. Durante la videochiamata, invece, non si ha la possibilità di vedere il corpo dell’interlocutore ma solo il volto. Se poi le telecamere sono spente, si impedisce al docente e ai compagni di osservare le proprie espressioni facciali. Questo rende più complicata la comunicazione e non riesce a generare un senso di legame con la classe e con il docente. La condivisione di un’esperienza didattica viene a mancare» continua Riva.
Il secondo processo riguarda i neuroni GPS, che inizialmente si pensava servissero soltanto per orientarsi nello spazio ma invece hanno un ruolo fondamentale nella memoria autobiografica. «Questi neuroni si attivano quando si entra in luoghi specifici, tanto che il collegamento tra le esperienze che si fanno e gli ambienti che ne sono teatro è fondamentale per ancorare ciò che si vive alla propria memoria» spiega il professore. «Nella didattica a distanza i neuroni GPS non vengono attivati. Per questo le esperienze fatte hanno maggiore difficoltà a fissarsi nella memoria autobiografica. Il rischio è quello di passare le giornate ad ascoltare cose che verranno dimenticate molto in fretta».
I segnali per capire il disagio psicologico nel ragazzo
I comportamenti che possono allertare un genitore sono tipicamente due. «Il primo è sicuramente l’isolamento sociale: molto spesso il ragazzo, infatti, tende a chiudersi a riccio, ritirarsi nella sua cameretta, rifiutarsi di uscire e incontrare gli amici, anche negli orari consentiti e mantenendo il giusto distanziamento» continua Riva. «Il secondo, invece, è l’elevato numero di ore trascorse davanti a pc, tablet, smartphone. La didattica a distanza costringe l’adolescente a passare gran parte della giornata davanti agli schermi dei device ma poi è difficile staccarsene. Il ragazzo, quindi, preferisce chiudersi nella propria individualità piuttosto che uscire nel mondo reale e accettare le sfide della vita quotidiana».
A chi ci si può rivolgere se si sospetta un disagio psicologico
Se si nutre il sospetto che il proprio figlio abbia un disagio psicologico, maturato nel contesto pandemico attuale, il punto di riferimento deve essere un professionista. «Lo psicologo e lo psicoterapeuta rappresentano gli interlocutori privilegiati per questo tipo di situazioni, che possono portare a malessere, stati depressivi e ansia. Un supporto nelle fasi iniziali può evitare poi di arrivare a situazioni più complesse in futuro» prosegue Riva.
Attraverso una diagnosi accurata è possibile anche pensare a strategie di intervento specifiche, come per esempio «la mindfulness, che consente di concentrarsi su quello che stiamo facendo e dare un senso alle nostre attività quotidiane, e la psicoterapia, in particolare la terapia cognitivo-comportamentale. Quando l’esperienza del Covid-19 sarà terminata, i giovani dovranno affrontare un ritorno alla quotidianità, che imporrà loro di uscire dalla zona di comfort che in questi momenti ci s è costruiti per sopravvivere. È importante, quindi, non abbandonare mai del tutto le relazioni e mantenere sempre i contatti» conclude il professor Riva.