È un ruolo cardine, ma in bilico, quello del caregiver. Tanto importante per migliorare la vita di una persona che da sola non ce la può fare e allo stesso tempo altrettanto esposta a peggiorare la qualità della propria. In Italia, secondo gli ultimi dati Istat, i caregiver sono 8 milioni e mezzo, di cui la maggior parte (7 milioni) non sono figure esterne e professionali, ma persone interne alla famiglia, principalmente donne: madri, compagne, mogli, figlie. Un ricerca del 2018 dell’Osservatorio nazionale sulla salute della donna e di genere (Onda) ha rilevato che l’86% delle italiane svolge il ruolo di caregiver con diversi gradi di intensità, spesso senza aiuti esterni, sia per scelta, sia per motivazioni economiche.
In questo articolo
Si rinuncia al proprio lavoro
«La fascia maggiormente interessata è tra i 45 e i 64 anni», interviene Claudio Mencacci, presidente della Società italiana di neuropsicofarmacologia e direttore del Dipartimento di neuroscienze e salute mentale ASST Fatebenefratelli-Sacco di Milano. «Il caregiver familiare spesso abbandona la propria attività per dedicarsi a tempo pieno a chi nella propria famiglia non ha più autonomia. Le donne che invece continuano a lavorare si ritrovano a fare salti mortali pur di riuscire a incastrare tutti gli impegni, tra figli, casa e ufficio. Ed è ampiamente dimostrato come queste persone, rispetto alla popolazione generale, siano più esposte al rischio di sviluppare determinate patologie, sia fisiche che mentali».
Secondo il Censis, la maggior parte dei caregiver familiari delle persone affette da demenza ha oltre 60 anni e l’aumento progressivo dell’età rende questa mansione ancora più impegnativa e difficoltosa. Per fare un esempio di come vanno le cose tra chi assiste parenti con malattia neurodegenerativa è efficace uno studio pubblicato di recente sul Journal of Applied Gerontology. Secondo i risultati, l’Alzheimer è praticamente una malattia di coppia: chi si prende cura di un compagno, marito o moglie con questa patologia, ha il 30% di rischio in più di soffrire di sintomi depressivi rispetto a chi non convive con una persona malata.
Problemi psichici e fisici
Ma la depressione non è l’unica patologia a cui i caregiver sono esposti. «C’è anche una buona dose di ansia e stress», riprende Mencacci. «E lo stress può avere conseguenze sia sul fisico, con disturbi gastrici, intestinali, dolenzie diffuse e ipertensione, sia sull’umore, perché può generare irritazione e irascibilità». Nel libro bianco che l’associazione Onda ha dedicato al tema del caregiving, gli esperti segnalano che più del 50% di chi presta assistenza manifesta ansia, insonnia e difficoltà a concentrarsi sul lavoro. Inoltre, i caregiver di persone con demenza hanno un maggiore rischio di essere ospedalizzati e assumono il 70% in più di farmaci prescritti e di psicofarmaci.
Prendersi cura di un parente malato ha un impatto anche sul fisico perché sollevare, pulire e aiutare una persona bisognosa in tutte le attività quotidiane, come alzarsi, cambiarsi, andare in bagno o semplicemente camminare, può causare dolori muscolari e articolari. L’incidenza di questi problemi è già di per sé un problema, ingigantito dal fatto che quasi tutti i sintomi e i malesseri vengono trascurati. Questo perché, sottolinea l’esperto, «i caregiver non danno il giusto peso al proprio stato di salute e alla loro qualità di vita, soprattutto se sono emotivamente vicine all’assistito. Si curano di meno, trascurano le visite di controllo, passano le giornate a prendersi cura di un’altra persona e non c’è nessuno che le aiuti o dia loro il cambio. Per di più chi assiste è spesso esposto alla solitudine e all’isolamento sociale e vive nella stessa casa dell’anziano, senza, di fatto, staccare mai».
Rischio burn out
Le evidenze e i dati a supporto dei rischi che corrono i caregiver sono così corposi, che, torna a sottolineare Mencacci, «ci aspettiamo da parte dei decisori delle politiche socio-sanitarie adeguate dei provvedimenti per creare percorsi di prevenzione ad hoc per aiutare chi assiste a mantenere intatto il proprio stato di salute. Parlo di numeri utili, corsie privilegiate in ospedale, sensibilizzazione sulle patologie a cui sappiamo sono più esposti, maggiore dialogo con gli specialisti». Altrimenti il rischio è perdere la natura stessa dell’assistenza: se il malessere di chi assiste cresce, finisce per ricadere sull’assistito, in un circolo vizioso di influenza negativa che non lascia via d’uscita.
«Alti livelli di stress, ansia e disagio riducono il coinvolgimento, l’attenzione e la concentrazione del caregiver: l’umanità e la capacità empatica di una persona hanno un limite», prosegue lo psichiatra. «Se le risorse di chi si assiste si esauriscono scatta il distacco, la freddezza e persino il disinteressamento e la mal sopportazione dell’assistito, fino alla rabbia. Tutto ciò ha conseguenze dirette e negative sulla diade e sulla salute di entrambi».
Si è parlato infatti del burn out del caregiver, più probabile e frequente in persone che senza neanche accorgersene finiscono per esistere solo in funzione della patologia del proprio assistito e non si ritagliano momenti per sé o di sufficiente qualità. «Se le ore di assistenza sono otto va bene, a patto che il resto della giornata e i momenti di pausa siano qualitativamente accettabili», conclude Mencacci. «Una passeggiata, dei contatti sociali, un buon riposo notturno, dello sport, un hobby. Se invece anche le ore di pausa sono vissute in solitudine e in isolamento affettivo il quadro di impoverimento si amplia e il caregiver perde la sua umanità».
I consigli dell’esperta
Cosa fare, quindi? Prima di tutto non trascurare i sintomi di disagio: ai primi segnali di malessere va consultato il medico di base per capire quale piano terapeutico possa costituire la soluzione ideale. Questo potrebbe includere farmaci o un aiuto da parte di uno psicologo-psicoterapeuta specializzato nell’ambito. E in attesa che il sistema socio-sanitario si organizzi per fornire una rete di supporto accessibile in modo semplice ed efficace per queste persone, ecco i consigli pratici da mettere in atto tutti i giorni, che ogni caregiver può fare propri, suggeriti con la collaborazione di Giulia Avancini, docente del corso di laurea in servizio sociale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e autrice del libro Prendersi cura di un anziano fragile. Guida pratica per il caregiver familiare (Erickson).
Non sentirsi in colpa
Provare dei sentimenti negativi (frustrazione, spossatezza, avvilimento) è normale. L’importante è rendersene conto e lavorare su se stessi: mai sentirsi in colpa.
Non sentirsi insostituibili
Quando si chiede l’aiuto di qualcuno per assistere il proprio caro non bisogna sentirsi in difetto, anche se alle volte si ha la sensazione di essere gli unici a poter/dover svolgere una determinata attività. Può essere importante anche per l’anziano avere altri punti di riferimento.
Essere consapevoli dei propri diritti
Staccare è una necessità e un diritto che abbiamo tutti, anche se stiamo assistendo una madre anziana, un compagno, un figlio.
Ritagliarsi del tempo di qualità
Nei momenti liberi in cui non si fa assistenza è bene concedersi del tempo per se stessi dedicandosi ad attività piacevoli e gratificanti. Leggere, fare sport, coltivare un hobby, guardare un film.
Non avere paura a chiedere aiuto
Spesso è faticoso, ma è fondamentale per condividere la propria esperienza e ricevere supporto. Si può chiedere aiuto ai professionisti, ai propri familiari, a persone vicine. Inoltre, si può trovare supporto anche grazie al confronto con persone che hanno vissuto o stanno vivendo una situazione simile alla propria (ad esempio frequentando gruppi di auto mutuo aiuto). Lo scopo è spartire le proprie esperienze, elaborare le proprie emozioni, apprendere delle strategie per gestire l’assistenza del proprio caro e affrontare la situazione nel suo complesso
Non sentirsi dei supereroi
L’obiettivo del caregiver non deve essere quello di diventare Superman o Wonder Woman. La finalità è lavorare per costituire o mantenere nel tempo una relazione autentica con il proprio assistito.
Formazione e riconoscimento dei diritti
Per sostenere tutti coloro che si trovano ad assistere malati di patologie neurodegenerative è nata NCA (Neuroscience Caregiver Academy), un progetto con un duplice obiettivo. Da un lato formare i caregiver, attraverso corsi multidisciplinari, a una migliore gestione domiciliare dei pazienti, dall’altro promuovere un iter legislativo a favore della valorizzazione del loro ruolo, attraverso un dialogo con le istituzioni. NCA è frutto della collaborazione tra l’azienda farmaceutica AbbVie, l’Accademia per lo Studio della Malattia di Parkinson e i Disordini del Movimento (Accademia LIMPE-DISMOV), la Fondazione LIMPE per il Parkinson Onlus e l’A.N.I.N (Associazione Nazionale Infermieri Neuroscienze).
Condizione peggiorata durante la quarantena
Una ricerca condotta dalla Società italiana di neurologia per le demenze (Sindem) nel periodo della quarantena lascia supporre che la condizione dei caregiver durante il lockdown sia peggiorata. Dall’indagine, pubblicata su Frontiers Psychiatry, è emerso che, a un mese dall’inizio del confinamento, il 60% dei pazienti con malattie neurodegenerative ha subito un peggioramento dei disturbi comportamentali preesistenti o la comparsa di nuovi sintomi neuropsichiatrici. In particolare irritabilità (40%), agitazione (31%), apatia (35%), ansia (29%) e depressione (25%).
«L’interruzione della routine quotidiana con l’assenza e la limitazione di alcune attività, come la passeggiata di rito, è una delle cose che ha avuto più impatto sui pazienti con demenza», spiega Stefano Cappa, specialista della Società italiana di neurologia, professore di neurologia presso la Scuola Universitaria Superiore IUSS e l’Istituto Neurologico Mondino di Pavia. «C’è poi il fattore isolamento: in una persona con disturbo cognitivo l’interazione con le altre persone, soprattutto parenti, è fondamentale perché ha un effetto diretto e positivo. Infine, c’è stata una parziale perdita di supporto e di cura: molti pazienti fanno delle visite periodiche di controllo e qualcuno durante il lockdown può averla saltata». Tutto ciò si è riversato inevitabilmente sui familiari dei pazienti: come conferma il sondaggio, il 65% degli intervistati ha risentito in modo significativo degli effetti acuti della quarantena con evidenti sintomi di stress.