Giugno è il mese in cui si celebra l’orgoglio della comunità LGBTQIA+. Il Pride Month è un momento di celebrazione dell’inclusione, ma ci sono ancora molti pregiudizi su coloro che fanno parte di gruppi di minoranze sessuali, che incidono fortemente sul loro benessere fisico e psicologico. Ne abbiamo parlato con la dottoressa Sara Beomonte Zobel, psicoterapeuta a orientamento psicodinamico del servizio di psicologia online Unobravo ed esperta di temi legati al mondo LGBT.
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Pregiudizi e violenza psicologica sulla comunità LGBTQIA+
«Il problema della violenza psicologica, da un lato, è che è meno visibile di altre forme di violenza, come quella fisica. Dall’altro, è una violenza che può avere tantissime forme. Qualsiasi minoranza è soggetta, oltre ad aggressioni esplicite, anche a tutta una serie di microaggressioni, in cui a volte non c’è la volontà esplicita o la consapevolezza di discriminare. Dare per scontato, per esempio, che una persona che appare come donna si riconosca in termini di identità di genere come tale. Siamo in una società che non ha ancora raggiunto un adeguato livello di consapevolezza su queste tematiche. Per questa ragione è importante sottolineare che, per chi viene da un’esperienza di discriminazione sistemica, anche questi sono traumi, comunque qualificabili come violenze», spiega la dottoressa Sara Beomonte Zobel.
I membri della comunità LGBTQIA+ sono più a rischio di soffrire di problemi di salute mentale
«Se andiamo a guardare gli studi che si occupano di salute mentale, come i survey condotti negli Stati Uniti su migliaia di persone appartenenti alla popolazione generale, effettivamente c’è una prevalenza maggiore di disturbi o di sofferenza psichica. Però non è che la condizione di appartenenza alla comunità LGBTQIA+ sia di per sé un fattore predisponente ad un minor benessere psicologico. Va rapportato al fatto che c’è un filtro intermedio, la società e al “minority stress”».
Cos’è il “minority stress”?
«Questo concetto deriva dalla psicologia sociale. È l’eccesso di stress a cui individui appartenenti a categorie marginalizzate e stigmatizzate, come quella LGBTQIA+, sono maggiormente esposti. L’essere umano quando si trova in una condizione di stress è perché sta reagendo per adattarsi all’ambiente. Nel momento in cui siamo stressati si attivano neurotrasmettitori e ormoni che hanno degli effetti sul funzionamento del cervello. Essere esposti a una condizione stressante per un tempo prolungato comporta una maggiore vulnerabilità allo sviluppo di malattie, sia da un punto di vista fisico che psicologico. La sintomatologia che può derivare dall’esposizione prolungata a una condizione di stress sistemico, come quello che subiscono le minoranze, è poi estremamente legata alla personalità, al contesto sociale di provenienza o a quello in cui la persona si muove. Alle risorse emotive, intellettuali e ambientali».
«Il campanello d’allarme è proprio il fatto di non sentirsi bene nell’essere sé stessi o sé stesse. Nel sentirsi inadeguati o inadeguate senza riuscire a darsi una spiegazione. In realtà, è il contesto che genera o attiva questo tipo di vissuti. Come l’essere molto condizionati nel modo di vivere le relazioni o nel doversi presentare in un modo diverso da quello che si è», specifica la psicoterapeuta.
L’efficacia della terapia affermativa
«La terapia affermativa non è un orientamento terapeutico, ma è uno stile, un modo di essere e di stare in terapia da parte del terapeuta o della terapeuta. Si contrappone alle terapie di conversione che purtroppo esistono ancora, basate sulla negazione dell’identità dell’individuo. Le terapie di affermazione sono degli approcci socialmente e culturalmente informati. Riconoscono l’identità in tutte le possibili declinazioni, non vedendola come indice di qualcosa di patologico».
«In teoria qualsiasi buona psicoterapia dovrebbe essere una terapia affermativa. È la conditio sine qua non affinché una persona possa fidarsi, percepire un ambiente come sicuro, aprirsi e dare la possibilità al professionista o alla professionista di aiutarla. La terapia non ci permette di cambiare il mondo esterno che va in una direzione mortificante o stigmatizzante. Consente però di avere uno spazio in cui sentirsi riconosciuti, liberi nelle proprie scelte e di poter stare bene anche in contesti non necessariamente accoglienti».
Le discriminazioni verso la comunità LGBTQIA+ limitano l’accesso alle cure
«Esistono molti studi sul fatto che tendenzialmente c’è un minore accesso alle cure dei membri della comunità LGBTQIA+, determinato proprio dalla paura di essere discriminati anche dal personale sanitario. Oppure, semplicemente, dal doversi presentare all’altra persona con una fatica maggiore di qualcuno conforme alle aspettative sociali rispetto al sesso biologico. Le persone, magari sulla scorta di un’esperienza precedente o di un contesto globale di discriminazione e rifiuto, percepiscono un’ulteriore barriera. Si tratta di un grossissimo problema che evidenzia una necessità di formazione e informazione, in particolar modo su chi lavora a contatto con la popolazione», continua la dottoressa Beomonte Zobel.
L’importanza di educare alla diversità e l’attenzione al linguaggio
«Si parte dalla formazione primaria ad educare alla diversità, fino ad arrivare alla formazione più mirata e specifica in ambito professionale. Tenendo a mente il fatto che viviamo in un sistema culturale in cui si dà per scontata la corrispondenza tra il sesso biologico e il genere di appartenenza o il fatto di essere eterosessuali».
«Un’altra cosa importante è cercare di adottare un linguaggio neutro quando si parla, che sia in un contesto formale, informale o educativo. Nel momento in cui siamo in un gruppo e ci si presenta tutti quanti e tutte quante con questo tipo di approccio, indicando i pronomi di preferenza, la persona che non si riconosce nel proprio sesso biologico si sentirà meno stigmatizzata nel non essere l’unica a doverlo precisare. Così come nei discorsi di qualsiasi tipo non bisogna dare mai per scontato che ci possano essere determinate preferenze o inclinazioni. Implica un pò di sforzo, ma sono tutte cose che poi, nel momento in cui iniziamo a farle, diventano automatiche. Se io inizio a parlare in un certo modo, l’interlocutore o l’interlocutrice che ho davanti tenderà a utilizzare lo stesso linguaggio».
Creare un ambiente inclusivo
«In una società realmente inclusiva non sarebbe necessario che qualcuno faccia più sforzo di qualcun altro per farsi riconoscere qualcosa che dovrebbe essere solo un diritto. Se già tutta una serie di piccole cose entra a sistema il resto viene di conseguenza, perché il linguaggio crea», conclude l’esperta.