È entrata nelle case di tutti come un ospite inatteso e sgradito e ora stenta ad andarsene. L’ansia, in tempi di pandemia, ha trovato terreno fertile: secondo i dati diffusi in occasione dell’ultima Giornata mondiale della salute mentale (lo scorso 10 ottobre), nella popolazione italiana i sintomi di stress e ansia dovuti al lockdown sono aumentati rispettivamente del 30 e del 40%. Ed è benzina sul fuoco, perché i disturbi d’ansia erano già tra i problemi mentali più diffusi nel nostro Paese. Prima della pandemia si stimava che una persona su tre ne avesse avuto esperienza, un numero di casi superiore ai 20 milioni.
In questo articolo
Che cos’è l’ansia?
L’ansia è un’emozione antica, che serve biologicamente a proteggerci da situazioni di cui è normale avere paura. «Quando siamo di fronte a un pericolo si attivano sistemi cerebrali deputati a difenderci. Così diventiamo più attenti e reattivi», spiega Giampaolo Perna, responsabile del Centro per i disturbi d’ansia e di panico di Humanitas San Pio X di Milano. «Quando rimane su questo livello, l’ansia è positiva e ci aiuta ad affrontare le difficoltà della vita con prestazioni anche migliori di quelle che avremmo senza alcuna pressione. Di fatto in questo periodo c’è stato un pericolo, quindi è normale che in molti di noi sia scattata l’ansia».
Ansia per l’incertezza, per i nostri cari, per la quarantena, ma anche e soprattutto ansia di ammalarsi. «Come ha evidenziato uno studio condotto dal nostro Centro durante la prima fase della pandemia, il 90% delle persone ha paura di infettarsi, il 77% di infettare i propri cari e il 65% di morire per il Covid-19», continua lo psichiatra. «L’ansia di ammalarsi può nascere da attacchi di panico che scatenano crisi con sintomi fisici così forti (respiratori, muscolari, cardiaci) da indurre nella persona la paura di avere qualcosa di grave, ma anche dalla tendenza a rimuginare troppo sugli eventi o dall’ossessione per la salute».
Boom di richieste di consulenza psicologica
«Il coronavirus, con tutte le conseguenze che ha avuto sulle nostre vite, è diventato una cartina di tornasole che ha esacerbato disturbi già presenti e innescato o evidenziato problemi che invece prima erano assenti o tenuti nascosti», conviene Anna Maria Nicolò, presidente della Società Psicoanalitica Italiana (Spi), che durante la prima ondata della pandemia ha attivato gratuitamente, nei suoi 11 centri nazionali, un servizio di ascolto e consulenza per chi viveva una condizione di bisogno: circa 400 specialisti si sono messi a disposizione dei cittadini e in totale i colloqui effettuati sono stati più di 1.500. Il servizio ha permesso alla Spi di tracciare uno spaccato della salute mentale in Italia nei mesi della pandemia.
«Nella prima settimana sono arrivate oltre 150 richieste provenienti da tutta Italia, ma hanno chiamato anche italiani residenti all’estero, ad esempio da Madrid, Londra, Parigi», continua l’esperta. «Per il 70% l’età media è stata tra i 26 e 60 anni, ma nel tempo sono cresciute anche le richieste di intervento da parte dei genitori per i loro bambini». Diversi i motivi delle richieste: sintomi ansiosi, panico, insonnia, angoscia per la perdita improvvisa di un parente che non si è potuto salutare, difficoltà coniugali esasperate dalla quarantena, ansia da separazione improvvisa, somatizzazioni, riattivazioni di pregresse patologie psichiche. «I contatti più significativi», ricorda Nicolò, «sono arrivati da medici e infermieri che combattevano in prima linea e vivevano situazioni difficili».
Dall’ansia alla fatica
L’iniziativa della Spi si è interrotta con la prima ondata, ma le condizioni di disagio legate all’ansia no. Così alcuni specialisti della Società hanno continuato a seguire i pazienti «agganciati» nella prima fase, rilevando un’evoluzione dell’ansia verso una sofferenza generalizzata, continua, che sta generando sempre più stanchezza. «La prima ondata era caratterizzata dall’elemento di novità, contro cui ci siamo uniti tutti insieme», sottolinea la psicoterapeuta. «Ora la situazione è più complessa: manca la solidarietà iniziale, ma l’ansia continua a manifestarsi, unita a un senso di fatica e di claustrofobia ancor più marcato. Inoltre, sono sempre più le persone che hanno avuto contatto con il virus oppure che si sentono circondati perché hanno avuto amici, parenti, conoscenti o colleghi contagiati».
La pandemic fatigue
È d’accordo con questa evoluzione Giampaolo Perna. Oggi l’ansia che permea i cittadini sta facendo il nido, creando una condizione di adattamento e rassegnazione che bene non fa. «Ansia e stress prolungati possono portare a una sorta di esaurimento», dice l’esperto. «Rimaniamo preoccupati, ma sottilmente ci stiamo adattando un po’ di più e iniziamo a viverla coma una condizione normale, quando normale non è». L’Organizzazione mondiale della sanità ha definito questa condizione pandemic fatigue. Secondo gli esperti dell’Oms si tratta di una «risposta prevedibile e naturale a uno stato di crisi prolungata della salute pubblica, soprattutto perché la gravità e la dimensione dell’epidemia da Covid-19 hanno richiesto un’implementazione di misure invasive con un impatto senza precedenti nel quotidiano di tutti».
Cosa possiamo fare? Finché l’ansia rimane in una condizione non patologica si può gestire attraverso la psicoterapia o l’esercizio quotidiano. «Il segreto», consiglia Perna, «è trovare degli spazi in cui ritemprare le forze. Mi piace citare Nietzsche: “Bisogna ridivenire buoni vicini delle cose prossime”. E queste “cose prossime” possono essere una telefonata alle persone care, un libro, un gioco, un programma televisivo».
Tecnologia e ansia: amica o nemica?
A marzo 2020 l’Organizzazione mondiale della sanità ha divulgato alcuni consigli da seguire per gestire ansia e stress associati all’emergenza sanitaria globale facendo leva sulle opportunità offerte dall’innovazione tecnologica. «Oggi dobbiamo restare in casa», scrivono gli esperti, «ma il mondo di fuori rimane a portata di mano, con la possibilità di parlare con chi vogliamo, di leggere ciò che ci interessa, di guardare ciò che ci piace, persino di andare per negozi virtuali a fare shopping. Tutte opzioni messe a disposizione dalla tecnologia». Una tecnologia, però, che ha anche contribuito ad alimentare l’ansia che ci ha invaso in questi mesi di pandemia. Il bombardamento mediatico, le conferenze stampa in televisione e persino in streaming sui social, le app, che con una notifica ci avvisano di un contagio, lo smartwatch che ci dice «cammina, respira, lavati le mani».
La tecnologia, insomma, è nostra amica o nostra nemica nella gestione dell’ansia? «Non mi piace dare giudizi netti», riprende Perna. «Penso che la tecnologia possa essere entrambe le cose. La sua natura dipende da come viene utilizzata. In questo periodo è stata di grande aiuto perché ha permesso di tranquillizzarci parlando con gli specialisti attraverso videoconsulti, di vedere amici che altrimenti non avremmo visto per mesi, di giocare, di informarci in modo libero». Dopotutto, il contatto umano è un elemento centrale per lo sviluppo psicoemotivo di ognuno di noi e in questo la tecnologia ha svolto un ottimo ruolo sostitutivo. Tuttavia, è chiaro che la tecnologia va gestita, perché utilizzata in modo sconsiderato ed eccessivo può avere un effetto ulteriormente ansiogeno.
Le app per rilassarsi funzionano?
Oltre alle app per le videochiamate, tra le più scaricate in pandemia ci sono state anche le app per rilassarsi e avere un sonno più tranquillo. Funzionano? Secondo una revisione di 38 studi pubblicata su Sleep Medicine Reviews, che ha analizzato l’efficacia di applicazioni e dispositivi che emettono rumore bianco per prendere sonno, non ci sono ancora prove valide sul loro effettivo beneficio. Gli esperti non sono così sicuri che influiscano positivamente sulla salute del riposo notturno perché pur emettendo un rumore bianco (in genere suoni della natura oppure ronzii di asciugacapelli o ventilatori), potrebbero influire negativamente sul sonno, per tanti già molto delicato in questo periodo (vedi box nell’altra pagina), e persino sull’udito.
C’è poi il tema delle luci blu dei dispositivi digitali, che non deve prendere il sopravvento rispetto alla luce solare, a cui in questa seconda fase della pandemia siamo ancora meno esposti a causa della stagione invernale. «Mentre il primo lockdown si è svolto in primavera, e quando si finiva di lavorare c’era ancora luce naturale, oggi la giornata lavorativa si conclude quando è già buio pesto. E la luce del sole ha un effetto calmante e persino curativo, tant’è che la depressione stagionale viene trattata anche con la terapia della luce», sottolinea Perna.
«Il mio consiglio è quindi quello di farsi aiutare dalla tecnologia, ma in vista di un periodo ancora lungo di restrizioni, cercare di dare spazio il più possibile alle attività che possiamo fare all’aperto e con le persone, quando ancora c’è luce. Una passeggiata e una camminata devono essere quotidiane per la gestione di ansia e stress».
Come va trattata la patologia ansiosa
Quando pensiamo di essere sempre sotto attacco e viviamo in una situazione psicologica di allarme, eccessiva e sempre presente, allora significa che l’ansia ha perso la sua funzionalità ed è diventata patologica. In questo caso può avere anche conseguenze a livello fisico, generare grande sofferenza e limitare la libertà e l’autonomia della persona che ne soffre, che si sentirà a disagio a decidere dove andare, incontrare delle persone, prendere impegni. «Per fare una diagnosi precisa, noi medici non dobbiamo ascoltare solo l’intensità dei sintomi, ma valutare l’intensità all’interno del contesto esperienziale, anagrafico e ambientale in cui vive ed è vissuto il paziente», specifica Perna.
«Bisogna capire se la sua reazione ansiosa è commisurata a quel contesto, oppure non lo è. Nel primo caso, si può cercare di gestire la situazione con un intervento psicologico. Non bisogna subito e necessariamente ricorrere a un farmaco. Quando invece la reazione è inappropriata rispetto al contesto allora è opportuno valutare la presenza di un vero e proprio disturbo d’ansia che può essere superato con una terapia integrata farmacologica e psicoterapeutica cognitivo comportamentale».
Nel caso in cui si ricorra invece alla terapia farmacologica, le linee guida internazionali indicano come trattamenti «evidence based» (cioè validati come efficaci in studi clinici controllati), i cosiddetti inibitori della ricaptazione della serotonina e della noradrenalina. Tuttavia, avverte l’esperto, «ancora troppo spesso vengono utilizzati farmaci o combinazioni di farmaci che non hanno una reale efficacia nel trattamento dei disturbi d’ansia, come gli antipsicotici atipici e tipici e gli stabilizzanti dell’umore».
Un approccio sempre più personalizzato
Ma la psicoterapia e la psichiatria, come sta accadendo ormai in sempre più branche della medicina, si stanno piano piano dirigendo verso un approccio personalizzato. «Significa integrare e superare la medicina evidence based per considerare ogni paziente come un’entità complessa. Perché non solo le persone sono tutte diverse tra loro, ma lo sono anche le loro ansie. Bisogna essere in grado di prescrivere una terapia non basandosi solo sull’etichetta diagnostica ma considerare il profilo clinico del paziente e le sue caratteristiche individuali, quindi genetica, stile di vita, esperienze, altre eventuali malattie e così via». Di psichiatria personalizzata si parla già da una decina di anni: secondo i suoi sostenitori, dovrebbe garantire un risultato migliore sul singolo paziente e generare meno effetti collaterali.
L’insonnia per il Covid
Tra le cause e le conseguenze dell’ansia durante la pandemia, anche la difficoltà a prendere sonno la sera. Difficoltà che per una buona fetta di popolazione si è tradotta in un disturbo del sonno o addirittura insonnia. Recenti lavori di ricerca clinica, come uno studio pubblicato a maggio su Journal of sleep research, hanno rilevato come durante la quarantena il ritmo sonno-veglia si sia notevolmente modificato: l’orario di addormentamento e quello di risveglio si sono ritardati rispetto al periodo pre-quarantena e la qualità del sonno è peggiorata. Cosa ha influito sul nostro riposo durante il lockdown? A metterlo a dura prova, spiegano gli esperti, i nuovi ritmi di vita causati dalle restrizioni, una diversa esposizione alla luce naturale, l’isolamento, la solitudine, i pensieri e le paure relativi al contagio.
«Secondo il modello delle tre P, ossia dei fattori predisponenti, precipitanti e perpetuanti in relazione allo sviluppo e al mantenimento dell’insonnia», spiega Antonio Minervino, presidente della Società italiana di medicina psicosomatica, «la pandemia ha le caratteristiche di tutti e tre i fattori: il predisponente, per il confinamento; il precipitante, in quanto evento traumatico; e il perpetuante, avendo alterato le condizioni comportamentali, cognitive e ambientali». In questo quadro, l’ansia legata alla pandemia è stata sia causa che conseguenza dei disturbi del sonno.
L’insonnia dopo il Covid
Per le persone colpite da Covid-19 l’insonnia ha rappresentato anche un colpo di coda della patologia. Come riportato all’ultimo congresso della Società italiana di neurologia, un lavoro retrospettivo su oltre 60mila pazienti, pubblicato a novembre 2020 su The Lancet Psychiatry, colloca l’insonnia al secondo posto, dopo il disturbo d’ansia, nelle sequele psichiatriche dei pazienti Covid-19. È per andare incontro all’esigenza di tanti cittadini, quindi, che l’Associazione Italiana di Medicina del Sonno (Aims) ha avviato a dicembre 2020 un servizio di consulenza gratuito attraverso cui le persone possono contattare tramite Skype e mail gli esperti. Gli specialisti risponderanno a tutti quelli che hanno problemi di sonno legati alle condizioni di auto-isolamento. Oppure che, più semplicemente, avranno bisogno di consigli in questo periodo. Il servizio è accessibile sette giorni su sette sul sito dell’Aims (sonnomed.it) e sarà attivo finché non ci saremo lasciati la pandemia alle spalle.