Per settimane intere si è vissuto così: come soldati in trincea, minacciati da uno scontro a fuoco. E come le foglie di Ungaretti in autunno, pronte loro e pronti noi a cadere da un momento all’altro. Forse, abbiamo bisogno di una strategia. Anzi: di strategie antiansia.
Alla presenza del nemico ci si è abituati subito. Tant’è che il suo nome, Covid-19 o coronavirus, è entrato nel lessico quotidiano di tutti. Difficile è stato, invece, familiarizzare con la perenne presenza della morte che ha ricordato la nostra paralizzante, quanto ignorata, caducità. «Abbiamo sempre vissuto in una condizione di presunta onnipotenza e nella convinzione di pseudo-immortalità. E, nonostante finora l’avessimo rinnegata, la pandemia per la prima volta ha mostrato la nostra vera fragilità», afferma Anna Maria Nicolò, presidente della Società psicoanalitica italiana (Spi).
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Non siamo abituati alla sofferenza
Effettivamente, perché pensare alla morte se l’aspettativa di vita è aumentata di quasi 20 anni nell’ultimo secolo? E la possibilità di mettere al mondo un figlio supera oggi i limiti della natura? Se, inoltre, si considerano i progressi della scienza nella lotta contro patologie letali, «parrebbe assurdo accettare la morte come una compagna di viaggio. E così», continua la psicanalista, «la ripudiamo, promuovendo invece una condotta che non lascia il minimo spiraglio al dolore e alla debolezza».
Le parole della specialista trovano conferma nell’approccio iniziale adottato da molti durante la prima fase dell’emergenza coronavirus. Al grido di «Milano non si ferma» il capoluogo lombardo ha esorcizzato la paura con l’energia che lo contraddistingue, invitando i propri cittadini, anche grazie a contenuti motivazionali diffusi sui social network, a non cadere nello sconforto. «Il timore e la sofferenza non appartengono ai nostri tempi. Anzi si fa quasi fatica a pronunciarle, come se fossero sinonimo di fallimento», precisa la psicoanalista.
Una decina di giorni dopo, però, Milano, seguita da tutto il Paese e poi da gran parte del mondo, abbassa le saracinesche. Dichiarando così la propria fragilità. «Le restrizioni alla socialità e il blocco della maggior parte delle attività produttive hanno rappresentato un trauma collettivo», commenta Gianluca Castelnuovo, professore ordinario di psicologia clinica all’Università Cattolica di Milano e psicologo clinico e ricercatore presso l’Irccs Istituto Auxologico Italiano. «Noi uomini occidentali moderni abbiamo coltivato la convinzione di poter controllare ogni azione, dalla più banale alla più importante. Il Covid-19 ci ha impartito sin da subito un insegnamento. Concepire la vita come imprevedibile con una grande necessità di adattamento da parte nostra».
L’illusione del controllo
L’illusione del controllo ci permette di accettare le morti sulle strade perché convinti di avere padronanza nella guida. Di beffare il tempo che passa grazie a costosi interventi chirurgici o di allontanare la minaccia di un pericolo dotandoci di un’arma da fuoco. Gli unici strumenti utili, però, in questa nuova minaccia sono state mascherine e distanziamento sociale. «Che non conferiscono quella sensazione di sicurezza necessaria per affrontare il nemico in trincea», continua lo psicologo. «Per di più, ci è stato chiesto di combatterlo rimanendo isolati, fermi e impotenti, spesso impauriti».
Senza possibilità di fuga
L’enciclopedia Treccani definisce la paura come uno «stato emotivo consistente in un senso di insicurezza e di smarrimento. Il cui turbamento si manifesta anche con reazioni fisiche, quando il pericolo si presenti inaspettato, colga di sorpresa o comunque appaia imminente». Il fenomeno è stato osservato in quasi tutte le specie animali. Quindi «anche nell’uomo è una reazione primaria che consente di attivarci in condizione di pericolo. Perché altrimenti vivremmo senza proteggerci da situazioni rischiose e per di più non molto a lungo», precisa Castelnuovo.
È la nostra biochimica a regolare la sensazione di timore. L’amigdala, una piccolissima struttura del sistema limbico che costituisce, a sua volta, l’area più antica del cervello, tiene sotto controllo tutto ciò che succede dentro e fuori il nostro organismo. Nel momento in cui avverte una possibile minaccia, attiva un circuito d’allarme al sistema nervoso centrale. Affinché, a sua volta, metta in moto una risposta concreta: la fuga.
«Per contrastare il pericolo del contagio ci è stato prescritto di chiuderci dentro casa, ovvero di rimanere immobili. Pertanto la reazione alla paura è stata paradossalmente una non reazione», continua lo psicologo. In condizioni normali di stress l’adrenalina, ormone prodotto dai surreni, raggiunge il picco e poi scende in tempi rapidi. Permettendo a muscoli e sistema cadio-circolatorio di stabilizzarsi. «Durante il periodo di quarantena, invece, l’adrenalina ha mantenuto un livello alto costante. Poiché priva di quella valvola di sfogo, cioè un’azione come attacco al nemico o fuga da esso», spiega Castelnuovo. «Sappiamo che il rilascio di adrenalina troppo prolungato nel tempo può avere effetti negativi sull’organismo».
L’elaborazione della crisi
Dallo «stress per le troppe cose da fare» siamo passati, nel giro di qualche settimana, allo «stress per le troppe cose che non si possono fare». E, se alla presenza fissa della paura sommiamo anche l’angoscia dell’incertezza, è facile ipotizzare uno scenario in cui le persone si trovino fortemente disorientate. Così come la morte, il dolore, la paura, anche l’incertezza accompagna da sempre le vite di ognuno.
Ma, come precisa Anna Maria Nicolò, «in questo caso la mancanza di sicurezze è esasperata. Un virus, che fino a pochi mesi fa era considerato al pari di un’influenza, ci ha messo in ginocchio. Gli scienziati continuano a procedere per tentativi e i mezzi di comunicazione ci bombardano di informazioni a volte discordanti». In questo caos statico, sia Castelnuovo sia Nicolò sono concordi nell’affermare che comportamenti disfunzionali possono essere considerati quasi la regola. C’è stato chi si è lavato le mani più di 50 volte al giorno o chi si è scoperto ansioso o ipocondriaco. Chi s’è gettato nello sconforto e ha vissuto il periodo di reclusione stretto nella morsa della tristezza. Se questi atteggiamenti si prolungano nel tempo, però, possono dar vita patologie più serie.
«Quel tempo vissuto come dilatato tra le quattro mura di casa deve cambiare ritmo e adattarsi a una nuova normalità. Perché sarà compito del singolo capire come gestire gli effetti della crisi», spiega lo psicologo. «La parola crisi deriva dal greco krisis, che significa scelta. In ogni sindrome da evento post traumatico gioca un ruolo determinante il modo in cui ognuno sceglie di affrontare gli eventi nefasti che ha vissuto. Per esempio, una persona che ha vissuto il trauma di un incidente stradale è plausibile che nel periodo immediatamente successivo abbia timore a guidare. Sarà una sua scelta, però, il modo in cui elaborare questa paura. Se trasformarla in prudenza, e quindi andare piano e tenere sempre le cinture allacciate, oppure in rifiuto, cioè non mettersi più al volante».
Un’occasione di cambiamento
Sorprendentemente, la reclusione forzata che tutta l’Italia ha vissuto ha prodotto anche effetti positivi. «Una mia paziente mi ha chiamato per dirmi che non era mai stata così bene come in quei giorni di isolamento. Perché ha potuto dedicare il tempo al suo hobby preferito: fare puzzle», racconta Castelnuovo. L’arrivo del coronavirus ci ha fatto fare i conti con il dolore, con la morte, con la fragilità, con l’impotenza, «ma ci ha dato la possibilità di riflettere su noi stessi e di rivalutare la scala dei nostri valori», aggiunge la psicanalista.
«Durante le settimane di isolamento ci sarà chi ha imparato a cucinare, chi si è accorto di amare il proprio partner o chi invece penserà seriamente all’idea di una separazione. Chi vorrà mettere al mondo dei figli o cambiare lavoro». Insomma, per dirla con le parole dello scrittore David Grossman, «quando l’epidemia finirà, non è da escludere che ci sia chi non vorrà tornare alla sua vita precedente. La presa di coscienza della fragilità e della caducità della vita spronerà uomini e donne a fissare nuove priorità».
Paura funzionale e ricordo amico
E una volta terminata l’emergenza come intraprendere un efficace percorso per tornare alla normalità? Secondo i due esperti è necessario mettere in atto due strategie. La paura funzionale e il ricordo amico. La prima permette di considerare come ovvie tutte le pratiche d’igiene e buon senso imparate nei mesi precedenti, dall’uso della mascherina alla pulizia delle mani. «Io ho paura che il virus ritorni ma in questa maniera non corro il rischio né di contagiare né di essere contagiato». Il ricordo amico può essere un dipinto, un puzzle, una foto, una canzone, qualsiasi cosa rimanga nel tempo e renda tangibile l’esperienza vissuta. Perché uno dei rischi più gravi può essere quello di abbandonarsi alla negazione e ripetersi che «è stato tutto un brutto sogno». Con l’eventualità di commettere gli stessi errori e ritrovarsi impreparati di fronte a un possibile contagio di ritorno.
Gli aiuti online
Non potendo incontrare di persona gli psicologi, l’aiuto è online. La Società psicoanalitica italiana ha attivato gratuitamente un servizio di ascolto e consulenza attraverso i suoi 11 centri psicoanalitici presenti in Italia (spiweb.it). Il Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi ha promosso l’iniziativa #psicologionline. Si può prenotare un teleconsulto gratuito via telefono o piattaforma di videochiamata (psy.it).
I dubbi dopo l’emergenza e le strategie antiansia
Ecco infine i consigli di Nicolò e Castelnuovo per rispondere ai principali dubbi che possono insorgere nel momento in cui il peggio sarà alle nostre spalle.
Ho paura di partecipare a eventi affollati
Soprattutto in un primo periodo di ritorno alla socialità, sarà sensato avere timore della folla perché per mesi l’assembramento era stato individuato come veicolo della diffusione del virus. A ogni modo concerti, manifestazioni o occasioni di questo tipo avranno luogo solo con l’approvazione degli esperti, pertanto non c’è da temere.
➜ Affidarsi alle disposizioni degli organi competenti perché guidate dai pareri degli scienziati.
Non mi fido di mangiare al ristorante o al bar
Anche in questo caso la tempistica è fondamentale. Se la diffidenza a mangiare una pizza fuori persiste sino all’anno prossimo, per fare un esempio, è evidente che il comportamento disfunzionale è scivolato in una problematica più seria. Come nel caso di ipocondria o ansia cronica. Gli esercizi commerciali si adatteranno alla nuova concezione di normalità, come tavoli più distanziati e sistemi di riciclaggio dell’aria. Se può essere d’aiuto, in un primo periodo si può optare per strutture all’aperto in cui ci si può sentire più al sicuro.
➜ Informarsi. Prima di prenotare accertatevi che il locale si sia adattato alle misure anti coronavirus.
Ho difficoltà a stringere la mano e salutare qualcuno come facevo prima
Il Covid-19 cambierà le abitudini più semplici e, probabilmente, anche il contatto sociale. Quando il rischio del contagio sarà solo un ricordo, scambiarsi un abbraccio e una stretta di mano verrà naturale. Nel frattempo, l’utilizzo di presidi, come le mascherine, possono essere d’aiuto per riprendere in mano la socialità.
➜ Tenere a mente ciò che si è imparato. Lavare spesso le mani, tossire e starnutire sulla piega del gomito.
Considero gli altri come possibili untori
È quel meccanismo che lo psichiatra Vittorino Andreoli definirebbe «individualismo allargato». Cioè mi fido solo di me stesso e della mia ristretta cerchia di conoscenti. Fondamentale è fare una distinzione tra paure soggettive e pericoli oggettivi. Che cosa dicono in merito gli esperti? Il virus ha ancora un coefficiente di contagio? E poi, perché l’untore dev’essere l’altro e non se stessi?
➜ Tenere a mente ciò che si è imparato. Questa esperienza ha portato alla luce diverse dimostrazioni di solidarietà e, nella maggioranza dei casi, ha promosso la vicinanza nonostante la distanza.
Ho il pensiero continuo che il virus possa ritornare
Può essere. Secondo gli epidemiologici la possibilità che un virus, a distanza di tempo, si ripresenti è molto alta. Per questo motivo è bene non farsi cogliere impreparati e abituarsi all’eventualità di trascorrere nuovamente più tempo a casa.
➜ Potere funzionale della paura. Trasformare il timore del contagio in buone pratiche preventive, come quella di una corretta pulizia delle mani.
Sono diventato ipocondriaco?
Difficilmente si diventa patologici da un giorno all’altro. Però è altrettanto vero che, se la paura diventa un’ossessione prolungata nel tempo, sarà necessario l’ausilio di uno specialista.
➜ Parlare con gli esperti della psiche. Perché sono in grado di ascoltare ogni dubbio in maniera competente e non giudicante.
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