Umberto Veronesi riceve oggi la sua quattordicesima laurea honoris causa. La più importante. A conferirgli il riconoscimento è, infatti, il King’s College di Londra, santuario della cultura anglosassone.
Vi hanno studiato poeti e scrittori come Virginia Woolf e John Keats; medici come Thomas Hodgkin (una malattia tumorale porta il suo nome); fisici come Peter Higgs e Owen Bentley, fondatore dell’omonima casa d’auto. Dieci fra alunni e accademici del College hanno ricevuto il Nobel, fra cui Desmond Tutu, Mario Vargas Llosa e Maurice Wilkins, scopritore della struttura del Dna con Francis Crick e James Watson. La celebre foto 51, la prima del Dna, fu scattata da Rosalind Franklin proprio nei laboratori dello storico Ateneo.
E Veronesi, che il 28 novembre compie 86 anni, è il primo italiano ad entrare nel novero dei degni di onore per il King’s College. Motivazione? Un riconoscimento all’umanizzazione della medicina. L’oncologo non nasconde l’emozione: «Un premio ai miei studi che hanno introdotto un nuovo paradigma nella cura dei tumori. Ossia che il principio da seguire nella scelta di una cura non è il massimo tollerabile (la dose o l’intervento più massiccio che il paziente può sopportare) ma il minimo efficace (il trattamento che a parità di efficacia garantisce la minore invasività o tossicità per il malato). È una laurea all’Italia, dove è nata la tradizione dell’attenzione all’identità del corpo come specchio dell’identità della mente». Vince la cultura della dimensione psicologica della malattia. «Abbiamo allargato l’orizzonte dalla sola quantità di vita (vale a dire la sua durata) alla qualità di vita. Vivere senza qualità è vivere a metà».
Che cosa ha significato questo per i malati? «Evitare gli eccessi terapeutici, le mutilazioni non necessarie. Per il tumore del seno è stato fondamentale perché di fronte alla possibilità reale di salvare il benessere fisico e psichico, le donne hanno vinto la resistenza a sottoporsi agli esami ed hanno iniziato ad aderire alla diagnosi precoce». Veronesi torna in luoghi che negli anni 50 lo videro ricercatore. «Ho trascorso un anno al Chester Beatty, dove ho conosciuto anche Crick e Watson. Lì ho imparato che il primo pensiero dopo aver concluso una ricerca con successo è quello di analizzarla criticamente per vedere quali sono i punti deboli e quelli da migliorare». È il metodo scientifico anglosassone.