Anche se a prima vista la denuncia di Richard Sullivan e dei suoi colleghi può sembrare eccessivamente cinica, plaudo a questa iniziativa perché ha il merito di affrontare un tema che tutto il mondo dell’oncologia conosce, ma raramente ha avuto il coraggio di porre al centro del dibattito della pubblica opinione.
Conosco il pensiero di Sullivan, a cui l’Istituto Europeo di Oncologia è legato da collaborazioni scientifiche, e condivido il suo attacco alla «cultura dell’eccesso». Prima di tutto eccesso terapeutico. Ho sempre pensato che sia fondamentale in tutto il percorso di cura, e tanto più nella fase terminale, ridurre al minimo la tossicità per evitare situazioni estreme in cui si aggiunge malattia alla malattia.
Ma non si tratta affatto di abbandonare il malato, al contrario si tratta di offrirgli terapie di supporto avanzate e mirate per il trattamento sia del dolore fisico, che della sofferenza, che è altra cosa. Terapie, dunque, che non aggiungono tossicità. Oggi disponiamo di approcci terapeutici che tengono conto anche dell’aspetto psicologico del paziente in fase terminale.
C’è poi il problema legato all’«eccesso di costi», che il lavoro di Lancet Oncology denuncia con forza. In un momento di crisi globale in effetti è ancora più incomprensibile un utilizzo di farmaci ad altissimo costo che non portino sensibili vantaggi ai malati.
Posso capire le reazioni indignate di chi istintivamente rifiuta qualsiasi ragionamento economico applicato alla malattia. Ma tengo a sottolineare che la questione dei costi in questo caso non vuol dire risparmiare, ma cambiare l’atteggiamento della medicina moderna, che non deve dar prova di tutte le sue possibilità fino a sfiorare l’«accanimento terapeutico», quanto tornare a considerare la dimensione individuale di ogni malato, la sua storia e la sua percezione personale della vita con la malattia.
Umberto Veronesi