Vi siete mai chiesti che cosa accade nella nostra testa quando siamo nel grembo materno? Che cosa fanno i nostri neuroni? La domanda è delle più complesse, ma c’è chi ha vinto un premio, lo Starting Grant da 1,5 milioni di euro dell’European Research Council (Erc), per provare a rispondere. Lei è Simona Lodato, 40 anni, a capo del Laboratorio di neurosviluppo dell’Ospedale e centro ricerche Humanitas di Milano, e in Italia è stata la prima donna a ottenere questo premio nel settore delle neuroscienze.
«La domanda che mi pongo da tempo è come durante la vita embrionale, nei mesi di gravidanza, il nostro sistema nervoso prende vita, a partire da un numero limitatissimo di cellule», racconta. «Mi chiedo come si forma quella complessità che poi definirà tutti i nostri comportamenti nella vita adulta». L’ipotesi innovativa della scienziata (e motivo del premio) è che esistano dei neuroni speciali che a un certo punto iniziano a dettare il ritmo a tutti gli altri. Ed è proprio di queste cellule nervose che Simona Lodato andrà a caccia nei prossimi anni. La speranza è che possano aiutare a individuare precocemente disturbi o malattie neurologici come autismo ed epilessia, e diventare loro stesse dei target terapeutici.
Con il suo progetto, chiamato Impact, ha vinto un premio ambitissimo, che solo una piccola percentuale delle migliaia di ricercatori di tutta Europa riesce a ottenere. Perché è stato riconosciuto come meritevole del finanziamento, che durerà quasi sei anni?
«Impact mira a spiegare un meccanismo misterioso del nostro cervello, un’attività presente nel sistema nervoso anche quando non siamo coscienti, quindi durante la fase fetale. Questa attività, che definiamo spontanea, avrebbe un ruolo fondamentale nello sviluppo cerebrale».
Perché?
«Noi sappiamo che il sistema nervoso è in grado di rispondere agli stimoli esterni attraverso segnali elettrici che passano, tramite le sinapsi, tra i vari neuroni. Per esempio, se camminiamo e vediamo un ostacolo di fronte a noi questa informazione dal sistema visivo viaggia fino ai neuroni e produce un output, cioè un effetto motorio che ci porta a evitare o scavalcare l’ostacolo. È un meccanismo fine, che ci permette ogni giorno di rispondere agli stimoli ambientali: luci, colori, suoni, oggetti. Sappiamo anche che i neuroni, persino quando non stiamo facendo nulla, continuano a svolgere quest’attività di comunicazione, che definiamo in questo caso spontanea, perché non viene indotta da alcuno stimolo. A lungo abbiamo ipotizzato che fosse una sorta di ginnastica con cui le cellule nervose si tengono attive, ma qualche anno fa si è scoperto che la stessa attività è presente anche durante la fase fetale. E anche in questo caso, reputavamo fosse una sorta di riscaldamento, un modo in cui i neuroni si preparavano alla vita».
E invece?
«Invece è molto più importante. Quell’attività, in assenza di stimoli esterni, è fondamentale per la formazione del sistema nervoso e della corteccia cerebrale. È grazie alla comunicazione spontanea tra i neuroni del feto che si genera la diversità che caratterizza il cervello di ognuno di noi e che ci rende gli esseri umani complessi che siamo oggi. La sfida è capire come si differenziano quelle cellule, che originariamente sono molto simili, è comprendere come riescano a formare quell’incredibile molteplicità di neuroni, di cui conosciamo ancora una parte limitata. Trovare risposte è importante perché con quella complessità e diversità conviviamo per tutta la vita, dato che le cellule nervose sono insostituibili e non vengono mai rimpiazzate».
Come fanno dei neuroni ad attivarsi senza stimoli dal mondo esterno? Cosa li risveglia?
«È proprio quello che stiamo cercando di capire. L’ipotesi alla base del progetto Impact è che nel cervello ci siano delle cellule speciali, come quelle che avviano il battito del cuore, definite pacemaker, che svegliano tutte le altre cellule nervose e iniziano a dettare loro il ritmo, innescando quell’attività spontanea critica e decisiva per la formazione dei circuiti cerebrali».
L’attività spontanea dei neuroni mentre siamo ancora nel grembo materno si lega in qualche modo al potenziale sviluppo di malattie neurologiche?
«Sì, l’idea è capire se questi neuroni speciali possano avere un ruolo in contesti patologici. Per esempio, in bambini che nascono prematuri e quindi sono esposti agli stimoli sensoriali quando il sistema nervoso non è ancora pronto, oppure relativamente a disturbi del neurosviluppo, come l’autismo, o neurologici, come l’epilessia. Magari alla base potrebbe esserci un difetto nell’attività spontanea dei neuroni nelle fasi fetali».
Come fate a studiare il sistema nervoso di un bambino nella pancia della mamma? Sembra una realtà impossibile da avvicinare.
«Abbiamo a disposizione vari tipi di modelli sperimentali, tra cui una tecnologia all’avanguardia, gli organoidi. Oggi in laboratorio possiamo coltivare cellule nervose che interagiscono tra loro e si aggregano a formare strutture tridimensionali in maniera spontanea all’interno di bioreattori. Gli organoidi offrono il grandissimo vantaggio di riprodurre abbastanza fedelmente alcuni step fondamentali dello sviluppo del sistema nervoso umano. Ci permettono di aprire una finestra su una fase del nostro cervello, quella fetale, che altrimenti ci sarebbe del tutto preclusa».
Guardando al futuro, in che modo la scoperta di questi neuroni pacemaker potrebbe cambiare la medicina, quindi la prevenzione o la cura di alcune patologie?
«Se dovessimo ottenere risultati positivi sulla loro attività, queste cellule potrebbero diventare delle osservate speciali. Sia per identificare i loro difetti, anche molto precoci, sia perché potenzialmente diventerebbero un target terapeutico. Se scopriamo che sono proprio loro ad avviare il ritmo dello sviluppo cerebrale, ma che sono anche responsabili di una sua alterazione, allora in futuro potrebbero diventare l’obiettivo di terapie mirate per prevenire l’insorgenza di malattie del neurosviluppo o neurologiche».
Quando dice che conosciamo ancora molto poco del nostro cervello cosa intende?
«Quantificare è difficile. Parlando per metafore, se il nostro sistema nervoso fosse un puzzle oggi noi conosciamo molto bene i singoli pezzettini che lo compongono, ma come si mettono insieme, come si incastrano e come quelle determinate connessioni si traducono poi in specifici comportamenti lo stiamo ancora studiando e imparando».
C’è un motivo per cui ha deciso di dedicarsi allo studio del sistema nervoso?
«Perché non c’è niente di più misterioso e perché studiare come siamo arrivati a evolvere un cervello così complesso è affascinante e insieme sfidante. Oltretutto negli ultimi tempi l’approccio olistico, che ci ha fatto capire che il cervello non è un organo isolato, ma fortemente connesso con il resto del corpo, intestino in primis, ci ha portato a porci innumerevoli nuovi quesiti».
Fino al 2023 ha un mandato come membro eletto del Fens Kavli Network of Excellence (FKNE), che ha l’obiettivo di creare scambi tra i ricercatori di tutta Europa, ma anche di sedersi ai tavoli di chi prende le decisioni per migliorare l’ambiente della ricerca. Qual è il suo punto di vista?
«Io studio come si differenziano le cellule del cervello e mi trovo a confermare, ancora una volta, quanto la diversità sia un valore aggiunto. Perché più neuroni significa più funzioni, più circuiti attivi, più comportamenti. Ma la diversità non è un valore aggiunto solo nei complessi biologici, quindi passando dal microscopico al macroscopico, lo deve essere anche all’interno degli ambienti lavorativi della comunità scientifica. La comunità scientifica è senza frontiere e deve promuovere la cultura della diversità, dove ognuno può essere diverso, ma senza differenze di opportunità, perché solo così possiamo ampliare la nostra conoscenza. È questo uno dei concetti a cui tengo e che penso possa migliorare il panorama della ricerca».
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