Arriva sul set fotografico quasi in punta di piedi, regalandoci un sorriso assai raro di questi tempi, che riempie e ammorbidisce la stanza, facendo sentire meglio chi lo intercetta. Sabrina Paravicini è una donna dai modi gentili, ma dietro a quello sguardo e a quella voce così delicati c’è una volontà di resistere alle sfide della vita che definire granitica è poco.
«In realtà, quando il 5 febbraio 2019 mi hanno diagnosticato un tumore al seno, non avrei mai pensato di avere la forza di affrontare tutte le chemioterapie, la mastectomia, la radioterapia e la somministrazione di anticorpi monoclonali; almeno non dopo aver trascorso gli ultimi dieci anni dedicando anima e corpo a mio figlio e alle sue terapie», racconta. «Quando mi hanno detto del cancro ero già sfinita, tant’è che uno dei miei primi pensieri è stato quello di fuggire lontano, lasciando alla malattia l’opportunità di fare il suo corso, senza opporre resistenza. E invece non sono andata da nessuna parte: sono rimasta esattamente dov’ero, aggrappata al mio presente e al mio futuro. E così ho trovato il coraggio di guardare in faccia il tumore e di dirgli: “Ok, possiamo iniziare”».
Una diagnosi inaspettata, piombata nella sua vita in un momento di grande fermento…
«Quando il carcinoma duttale infiltrante al seno è entrato nella mia vita, io e mio figlio Nino stavamo portando in giro per l’Italia il documentario Be Kind – Un viaggio gentile all’interno della diversità, che racconta proprio la nostra storia, quella di una mamma e del suo bambino, al quale, a due anni e mezzo, è stato diagnosticato un autismo severo. Quelli della scrittura, della realizzazione e della promozione del film sono stati mesi intensi e straordinari, pensavamo solo al nostro progetto e a quanto, dopo anni difficili, ci stesse facendo bene quell’esperienza.
Non avendo avuto grandi avvisaglie, non avrei mai immaginato di ritrovarmi, di lì a un paio di mesi, nello studio di un’oncologa del Policlinico Umberto I di Roma, costretta, ancora una volta, a rivedere i miei piani. Ci sono volute un’ecografia, una mammografia, una risonanza con mezzo di contrasto e una biopsia per avere la conferma che quel dolore al seno che avevo iniziato ad avvertire a fine anno, cui poi aveva fatto seguito l’introflessione del capezzolo, era un cancro maligno e non un “semplice” ascesso, come si pensava inizialmente. Il giorno della diagnosi sono stata travolta dalla paura di non farcela, ma anche dal pensiero che la malattia avrebbe inevitabilmente distolto l’attenzione da Nino e da quel meraviglioso viaggio intrapreso insieme».
Come si dice a un figlio che la sua mamma ha il cancro?
«Io e Nino arrivavamo da un anno in cui la condivisione e l’accorciare le distanze con la diversità erano stati il nostro pane quotidiano. Nascondergli la malattia avrebbe tradito il percorso fatto insieme. Essendo lui un ragazzo ipersensibile ho dosato le parole, ma ho scelto di essere sincera. Gli ho detto che quel dolore che mi impediva di abbracciarlo nascondeva sì un tumore, ma “curabilissimo”. Ricordo di aver usato proprio questa parola per infondere un po’ di fiducia in lui, e forse anche in me.
Il momento più difficile è stato quando ho iniziato a perdere i capelli e le ciglia. Per mio figlio non è stato semplice accettarlo, ci sono stati giorni di visi bassi e sguardi tristi. Per questo ho trasformato quell’atto così offensivo in un gioco: mi facevo chiamare “pelatina”, registravamo dei video nei quali lui faceva finta di rubarmi la parrucca o io la dimenticavo da qualche parte. Abbiamo trovato un escamotage per digerire la realtà senza passare le giornate a piangere».
Qual è stato il momento più doloroso, proprio la perdita dei capelli?
«C’è stato un momento in cui ho creduto di essere tra le pochissime fortunate a non perdere i capelli perché dopo 21 giorni di chemio erano ancora tutti lì. Invece è toccato pure a me, qualche giorno più tardi. Al mattino trovavo le ciocche sul cuscino e quando facevo la doccia vedevo i mucchietti sullo scarico. A quel punto ho trovato la forza di rasarli e questa è stata una delle fasi più sofferte. Mi sentivo nuda, avevo freddo alla nuca, non mi riconoscevo più. Ho sperato che mi facessero fare meno chemio e che almeno mi evitassero la radioterapia perché le cure sono faticose e stancanti, invece non mi hanno risparmiato nulla. La rabbia più grande, però, l’ho provata dopo la mastectomia. Mi sembrava di aver ceduto, di essermi piegata davanti alla malattia».
Cosa le ha lasciato la malattia, nel bene e nel male?
«Ho terminato le cure poco meno di due anni fa, ma nonostante continui a sottopormi a controlli periodici non riesco ancora a usare la parola “guarita”. La diagnosi, le cure, l’intervento, la perdita di alcune persone in terapia con me: è stato tutto così sconvolgente che anche quando ti assicurano che non c’è più, il cancro resta per sempre nella tua testa. Nella malattia, però, ho trovato anche un’opportunità di crescita. Inizialmente pensavo che avrei affrontato il percorso in completa solitudine, invece ho conosciuto tante persone nella mia situazione, ho ascoltato le loro storie, ho condiviso la mia esperienza e a mia volta ho aiutato chi, dopo di me, ha ricevuto la diagnosi di cancro. Quello che ho imparato è che una battaglia del genere si può combattere da soli, certo, ma tutto sommato insieme è meglio».
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