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Premio Nobel: «Sconfiggeremo prima il cancro di Alzheimer»

Intervista a John Ernest Walker, scienziato inglese, premio Nobel per la chimica nel 1997 sostiene che le malattie neurodegenerative siano le più difficili da sconfiggere

Il premio Nobel John Walker, direttore emerito della Mitochondrial Biology Unit dell’Università di Cambridge, nel Regno Unito,  è arrivato al 48° Congresso della Federazione delle società biochimiche europee (Febs), tenutosi a a Milano presso l’Allianz Convention Centre.

Professore, sappiamo che lei è stato più volte nel nostro Paese. Le piace?

«Certo, non perdo occasione per venire qui. Sono venuto molte volte soprattutto tra gli anni Sessanta e Ottanta, quando l’Università di Bari, il cui rettore era all’epoca Ernesto Quagliariello, organizzava conferenze di altissimo livello nel mio settore, riuscendo a radunare i migliori specialisti a livello mondiale. Ho partecipato ogni anno a queste riunioni, incontrando anche tanti studenti intenzionati a venire a lavorare con me a Cambridge. Molti di loro, effettivamente, vennero. Poi sono stato di frequente a Roma, in quanto membro straniero dell’Accademia dei Lincei. Ma ci sono stato più volte anche in vacanza: la città è spettacolare».

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Lei ha vinto il Nobel, insieme con il biochimico statunitense Paul Boyer, per la sua ricerca sull’Atp. Può spiegarci di che cosa si tratta?

«Tutto ciò che è vivo per funzionare ha bisogno di energia. Quest’ultima deriva dal cibo che mangiamo, che contiene carboidrati, proteine, grassi. Durante la digestione l’energia rilasciata dagli alimenti viene trasportata all’interno delle cellule e immagazzinata da una molecola chiamata Atp, ovvero adenosina trifosfato, composta da adenina, ribosio e da tre fosfati (alfa, beta, gamma). Ogni volta che una cellula ha bisogno di energia utilizza una molecola di Atp, che si rompe per liberare l’energia necessaria. Dopo l’uso, la cellula può ricaricare l’Atp e riutilizzarla, un po’ come si fa con una batteria ricaricabile. Il nostro organismo ogni giorno sintetizza circa 50 chili di Atp: una quantità sbalorditiva. Tra gli organi che ne consumano di più ci sono il cervello e il fegato. E poi i muscoli».

Cominciamo, però, la storia dal principio. Com’è nata la sua passione per la scienza?

«Quando ero bambino, mia madre aveva un amico che mi portava spesso a osservare la natura: mi ha insegnato i nomi dei fiori, degli alberi, degli uccelli. E poi mio padre, pur essendo uno scalpellino, era interessato all’astronomia. Così nelle sere limpide guardavamo le stelle insieme. Ma a me non interessava solo la scienza, interessava tutto, incluse le arti e le lingue straniere. Mi sarebbe anche piaciuto diventare un medico, ma il corso di studi durava cinque anni e non avrei potuto affrontarlo perché i miei genitori non erano benestanti. Per fortuna al liceo ho avuto un insegnante di chimica che mi ha sempre incoraggiato. Fu lui che un giorno mi disse: “Mio fratello sta studiando chimica all’Università di Oxford e dovresti andarci anche tu”. Mi aiutò, regalandomi alcuni libri e impartendomi lezioni supplementari. In realtà il direttore della scuola pensava che dovessi frequentare un’università locale e che stessi solo sprecando il mio tempo con queste ambizioni».

È importante incontrare sulla propria strada buoni insegnanti, che diano il giusto incoraggiamento.

«Sì, è così. Ho quindi studiato chimica, ma verso la fine del corso mi sono ammalato. Avevo contratto il virus di Epstein-Barr, la cosiddetta malattia del bacio. Il problema è che il germe aveva raggiunto il fegato, costringendomi a restare ricoverato per circa sei mesi in ospedale e a rimandare di un anno l’esame finale. Un periodo che però mi è servito per riflettere. E dato che le parti del corso di chimica che mi affascinavano di più erano quelle correlate alla biologia, ho deciso di conseguire un dottorato proprio in quest’ultima disciplina. Un percorso piuttosto insolito, a dire il vero. Ma per fortuna anche in questo caso ho avuto un ottimo mentore. Si chiamava Edward Abraham e aveva fatto parte del team di scienziati che durante la Seconda guerra mondiale sintetizzò la penicillina. Aveva anche scoperto un altro importante antibiotico, la cefalosporina. Grazie ai brevetti che ne derivarono divenne molto ricco e, generosamente, concesse rilevanti finanziamenti all’università, che anch’io ho contribuito ad amministrare».

Restando nell’ambito della biologia, quali sono oggi le principali sfide da affrontare?

«Credo che comprendere il cervello e la mente sia la sfida più grande che biologi, biologi molecolari e medici devono affrontare. Sono diverse le malattie neurodegenerative che ancora oggi non conosciamo a fondo e contro le quali non esiste ancora una cura efficace. Una di queste è il morbo di Parkinson. Un’altra la malattia di Huntington. Un’altra ancora l’Alzheimer. Mia moglie è morta nell’ottobre del 2023 proprio a causa di quest’ultima patologia, una malattia orribile e devastante».

Mi dispiace molto. Secondo lei sarà possibile, prima o poi, sconfiggere questo tipo di malattie?

«Stiamo imparando sempre di più sui loro meccanismi, sull’accumulo di proteine anomale nel cervello, sulle placche, sui grovigli. Bisognerebbe anzitutto capire come si originano, per poi provare a prevenire la loro formazione. Negli ultimi vent’anni sono stati compiuti importanti progressi e sono sicuro che nel prossimo futuro ci saranno altre rilevanti scoperte. Ma ci vuole tempo, naturalmente».

Un’altra importante sfida del nostro tempo è quella contro il cancro, che secondo i dati Eurostat nel 2021 è stato la principale causa di morte tra gli under 65. Quali sono le prospettive della ricerca?

«Stiamo studiando l’origine del cancro da molto tempo, ci sono già terapie valide per alcuni tipi di tumore e nuove cure sono in arrivo. Lo stesso approccio impiegato per i vaccini a mRna contro il Covid-19, inventati da Biontech in Germania e poi prodotti da Pfizer e Moderna, viene utilizzato per sviluppare vaccinazioni terapeutiche contro il cancro, impiegate dopo la diagnosi di malattia, che agiscono addestrando il sistema immunitario a riconoscere e a distruggere le cellule tumorali. Una strategia che ha già avuto successo nel trattamento del melanoma, per esempio. Ora le sperimentazioni si stanno moltiplicando e stanno coinvolgendo vari tipi di cancro, come quello che colpisce intestino, polmoni, testa e collo, vescica. C’è quindi un grande fermento nel settore e credo che non sarà lontano il momento in cui alcuni tumori potranno essere curati. Sono ottimista».

Torniamo al Nobel. Si ricorda dov’era e cosa stava facendo quando le hanno comunicato che aveva vinto?

«È una storia strana, in realtà. Quel giorno ero uscito prima del solito dal laboratorio. Sono andato a casa e ho cominciato a lavorare nel mio giardino. Mi sono arrampicato su un albero di mele e, proprio mentre stavo lì, ho sentito il telefono squillare continuamente. Allora sono sceso dal melo, sono entrato in casa e ho risposto. Era un giornalista di una radio, che mi ha chiesto: “Professor Walker, come ci si sente a vincere il Nobel?”. E io: “Non ne ho la più pallida idea”. Subito ho pensato che si trattasse di uno scherzo, poi ho contattato alcuni colleghi in Svezia che mi hanno confermato che era tutto vero. Di recente sono stato nominato membro emerito di uno dei tanti collegi di Cambridge, il Sidney Sussex College. E qui hanno deciso di far dipingere il mio ritratto. Ho raccontato questo aneddoto all’artista che ha eseguito l’opera e lui ha disegnato un albero di mele sullo sfondo. Ho due nipoti, una delle quali ha 16 anni. È venuta a stare un po’ da me e un giorno l’ho portata a vedere il ritratto. Sulla stessa parete, un po’ più avanti, c’era anche il ritratto di Oliver Cromwell, un allievo del college. In seguito mia figlia mi ha riferito che mia nipote è andata a dire a tutti i suoi amici: “Il ritratto di mio nonno è più grande di quello di Cromwell”».

Di recente, è diventato consulente scientifico della Citrin Foundation, un’organizzazione fondata a Singapore per promuovere la ricerca su una malattia genetica rara causata da un deficit di citrina.

«Quando ingeriamo le proteine, per esempio una bistecca o un bicchiere di latte, l’organismo produce ammoniaca, una sostanza di scarto che è tossica per il cervello. Ecco perché la trasformiamo in urea e poi la espelliamo attraverso le urine. Le persone affette dalla patologia rara di cui parliamo presentano un guasto in questo circuito a causa della carenza di specifiche sostanze e non riescono a produrre urea. Le conseguenze possono essere gravi: vomito, mal di testa, scarso accrescimento, ma anche disabilità intellettiva e disturbi del comportamento. La malattia, studiata inizialmente in Giappone, dove era più diffusa, conta ora sempre più casi anche nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Si pensa, tuttavia, che sia molto sotto diagnosticata perché è difficile da accertare nei neonati».

Spesso la ricerca nell’ambito delle malattie rare non è facile.

«Esatto, e questo per varie ragioni. Anzitutto si tratta di malattie poco diffuse, poi molti pazienti sono pediatrici, infine le informazioni sulla storia clinica della patologia sono spesso poche o addirittura nulle. A questo si aggiungono i problemi di sostenibilità economica della ricerca. Tutto ciò complica la programmazione di uno studio clinico per testare le eventuali nuove terapie».

Pensa che, in generale, servirebbero più fondi per la ricerca?

«Certamente sì. A dire il vero l’Unione europea ha programmi molto validi ed eroga una discreta quantità di finanziamenti. Temo invece che in Gran Bretagna si stia assistendo a una recessione della scienza. E questo è in parte dovuto alla Brexit: i ricercatori provenienti dall’estero sono sempre di meno perché ci sono problemi con i passaporti e gli stipendi sono piuttosto bassi. Siamo stati sempre all’avanguardia nella scienza, ma ora rischiamo di non fare passi avanti. Ed è un motivo di grande preoccupazione, per quanto mi riguarda».

Che consiglio darebbe a un giovane che voglia studiare le scienze?

«Credo anzitutto che si debbano sempre seguire i propri interessi. E penso che sia importante collaborare con validi scienziati. È risaputo che i premi Nobel hanno allievi che spesso diventano a loro volta premi Nobel. Per esempio, io ho lavorato con Frederick Sanger, che ha vinto due volte il Nobel per la chimica. E, oltre a me, altri due suoi studenti hanno ricevuto il riconoscimento dall’Accademia svedese. Quindi lavorare al fianco di grandi esperti è fondamentale, così come frequentare una buona università».

Intervista di Paola Arosio

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