«E voi, figli ancora niente?». Quante coppie si sono sentite fare questa domanda da zie impiccione, conoscenti invadenti, amici indelicati e, come nel mio caso, followers un po’ troppo inopportuni? Una curiosità espressa, evidentemente, a cuor leggero che, però, spesso non tiene conto del dolore di chi, invece, quel figlio lo vorrebbe (eccome se lo vorrebbe!) ma per un motivo o per un altro non arriva. Incredibile come cinque sole parole, buttate lì tra un click e l’altro o infilate spensieratamente in chiacchiere da bar, possano ferire il tuo cuore già malconcio e sbatterti ancora una volta in faccia la realtà con la quale, a insaputa di molti, stai facendo i conti ormai da tempo. Perché là fuori, nelle stesse strade in cui si vedono sfilare decine di pancioni e passeggini che a te sembrano centinaia, ci sono anche tantissime donne che non riescono ad avere un bambino, prigioniere non solo di un vuoto interiore difficile da colmare ma anche di un tabù sociale che talvolta diventa pregiudizio, che fa sentire diverse, inadatte, un po’ difettose e infligge grandi sofferenze a te, al tuo compagno. Alla coppia.
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Col passare degli anni l’assenza di un figlio ha preso il sopravvento
Avvilita, sfiduciata, delusa. È così che mi sono sentita, a fasi altalenanti, per otto lunghi anni, prima di scorgere, lo scorso gennaio, le due tanto agognate lineette sul test di gravidanza. Sì, avete letto bene: dopo una diagnosi d’infertilità, che ha confermato clinicamente quello che dentro di me già sapevo, sono rimasta incinta, naturalmente e del tutto inaspettatamente. Ma nonostante mi sia capitato questo dono incredibile, non dimentico ciò che c’è stato «prima».
Nel 2013 io e Riccardo, che all’epoca non era ancora mio marito, ci sentivamo pronti per iniziare una nuova avventura, quella della genitorialità. Abbiamo deciso di provarci, con la mente serena, senza premura né frenesia, assecondando l’ordine naturale degli eventi. Inizialmente, complici la giovane età, i crescenti impegni lavorativi, la nuova attività intrapresa sui social, ci siamo lasciati trasportare dalla filosofia del «quando arriva, arriva», senza mai trasformare il desiderio di una gravidanza in un’ossessione, in un chiodo fisso. Ci siamo goduti la nostra vita a due, sognando un futuro a tre, ci siamo buttati sulla carriera, abbiamo viaggiato, accolto due cagnoloni nella nostra famiglia e, due anni fa, ci siamo sposati. Il tempo passava, le nostre vite erano «piene» ma c’era sempre qualcosa che mancava. E, se per un certo periodo l’assenza di un figlio è rimasta in un angolo delle nostre esistenze, col passare degli anni ha preso il sopravvento e si è fatta sentire prepotentemente. Ma quel «serpellino» (dal cognome – Serpellini – del futuro papà) tanto voluto e cercato non arrivava mai: il desiderio di stringere tra le braccia un piccoletto rimaneva tale, non riusciva a concretizzarsi.
Non sono mancate le pressioni esterne
Ed è nell’intimità del mio nido familiare che ho iniziato a sospettare che ci fosse qualcosa che non andava e che gli anni di tentativi falliti alle spalle non rappresentassero – come dire – la «prassi» ma, al contrario, fossero l’espressione di un problema nascosto che stava effettivamente ostacolando il concepimento. In quei momenti avrei voluto essere una madre, e lo avrei voluto con tutta me stessa, ma non riuscivo per qualcosa che non potevo controllare e sul quale non avevo libero arbitrio: questo pensiero mi faceva impazzire, mi logorava. E se da un lato c’erano la mia infelicità per il bimbo che non arrivava e le inevitabili tensioni con Riccardo, che ha sempre combattuto al mio fianco e sostenuto ogni mia fragilità, dall’altro non mancavano le pressioni esterne, che non facevano altro che destabilizzare ulteriormente i miei stati d’animo.
Le curiosità su una possibile gravidanza si sono sprecate
Chiedere ripetutamente (anche se inconsapevolmente) a una donna che non può o non riesce ad avere un figlio quando si deciderà a farlo, come se bastassero un incrocio di sguardi e uno schiocco di dita, è un altro colpo al cuore, credetemi. Nel corso del tempo, ma in modo particolare dopo il matrimonio, le curiosità su una mia possibile gravidanza si sono sprecate, tanto nel mondo reale quanto in quello virtuale. Lavorare coi social network è meraviglioso perché permette di esprimere liberamente la propria personalità e crea connessioni formidabili tra persone, contenuti e pensieri più semplicemente di quanto si potesse fare fino a qualche anno fa. Non posso che essere grata, quindi, di poter far parte di questo «sistema». Tuttavia, per quanto si voglia tutelare la propria privacy, la condivisione porta a un’inevitabile sovraesposizione mediatica, per cui anche gli spezzoni di vita più intimi, che si vorrebbero custodire gelosamente tra le mura di casa, vengono spesso «sporcati» da commenti, insinuazioni, ironie. Non sempre è così, ma capita non di rado.
Una coppia potrebbe avere difficoltà ad avere un figlio, non poterlo affatto fare o non volerlo nemmeno
Qualcuno mi potrebbe dire: «È internet, bellezza, e tu non puoi farci niente», per riprendere una nota citazione cinematografica, riveduta e corretta in ottica 2.0. È vero, questi sono i rischi del mestiere e nessuno mi obbliga a portare avanti questa attività, che per me non è solo un lavoro ma è anche un modo per sentirmi più vicina a chi mi segue; è altrettanto vero che dall’altra parte dello schermo c’è sempre una persona che, pur popolare che sia, affronta situazioni più comuni e dolorose di quanto si pensi. Prima di essere una modella e un’influencer sono una donna di 34 anni che, fino a poco tempo fa, soffriva terribilmente, proprio come tante altre, per un bambino che non arrivava e vi assicuro che, nei momenti di maggiore sconforto, leggere certi commenti in Rete – «Cosa aspettate a fare un figlio?», ad esempio – mi faceva stare male. Come se poi non si sapesse, al giorno d’oggi, che una coppia potrebbe non solo avere difficoltà a mettere al mondo un bimbo, ma non poterlo fare affatto o, perché no, non volerlo nemmeno. Avere un figlio non è scontato, né obbligatorio, né tantomeno determinante nel sancire l’unione di coppia. Io e Riccardo ci siamo sempre sentiti una famiglia, ancor prima di sposarci e nonostante le criticità affrontate per diventare genitori.
Fondamentale il supporto psicologico di uno specialista
E così, in questo turbinio di emozioni, abbiamo deciso di prendere in mano, una volta per tutte, la situazione per capire come mai non riuscissimo a concepire. Dopo esserci affidati a un team di specialisti e sottoposti a una serie di esami approfonditi, lo scorso settembre ci è arrivata la conferma diagnostica, che ha accertato una condizione d’infertilità: stando a quanto ci hanno riferito i medici, le possibilità di procreare naturalmente sarebbero state davvero esigue e, a giudicare dagli anni di tentativi alle spalle, non stentavamo a crederci. Anche se in cuor mio già sapevo che qualcosa non andava, averne la certezza mi ha proprio annientata e ci sono volute settimane prima di metabolizzare l’accaduto. Non è stato facile prenderne coscienza, mi sentivo svuotata. Anche se avessimo potuto intraprendere altre strade per portare a termine una gravidanza, era prima necessario rimettere insieme i pezzi e, con l’aiuto di uno psicoterapeuta, affrontare a viso aperto la sofferenza. E questo percorso di supporto ci è servito davvero, un po’ per accettare la nostra storia e prepararci alle scelte future e un po’ per vivere meglio le inevitabili «pressioni» esterne.
La maternità delle altre donne
Un giorno una ragazza mi ha chiesto in che modo si potesse reagire, nella mia situazione, alla notizia di una dolce attesa altrui. Negli anni, infatti, molte amiche hanno condiviso con me la gioia della maternità e pur sapendo di non poter provare in prima persona quell’emozione ho sempre cercato di mettere da parte i miei problemi e partecipare alla loro felicità. E anche se non mi sento di giudicare chi, vinta dalle proprie fragilità, si allontana da un’amica che, diversamente da lei, è riuscita ad avere un figlio, credo che non sia giusto incolpare un’altra persona per una condizione che riguarda se stessi. Ho sempre pensato, anche nei momenti più bui, che la mia infelicità per la gravidanza che tardava non era causata dalla felicità altrui e che la notizia dell’attesa di un bambino non poteva creare distanze, mai.
Era tutto pronto per la procreazione medicalmente assistita
Al termine di questo percorso di presa di coscienza del nostro problema d’infertilità, abbiamo deciso di affidarci alla procreazione medicalmente assistita, per la quale, alla fine dello scorso anno, ci siamo sottoposti a tutti gli esami preliminari necessari. Per facilitare l’esito positivo del trattamento, a gennaio avrei dovuto iniziare la stimolazione ovarica: era tutto pronto, avevo anche già acquistato la terapia, dovevo solo attendere l’arrivo del ciclo. Beh, una parola! Trascorrevano i giorni e le mestruazioni non arrivavano, fatto anomalo per una puntuale come me. E dopo quello che mi avevano detto i medici mesi prima, non avevo neanche minimamente accarezzato l’idea di poter essere incinta. Alla fine, però, su consiglio della mia ostetrica di fiducia, ho fatto un test di gravidanza, anche se la paura di andare incontro a un’altra delusione era tanta, troppa. Mi stavo illudendo, ancora una volta? Con le palpitazioni e le lacrime pronte a sgorgare, ho aspettato i canonici cinque minuti e… positivo. Aspettavo un bambino ed ero già alla quinta settimana.
Come mi hanno poi detto i medici, riuscire a concepire naturalmente era improbabile ma non impossibile e noi, dopo otto anni d’attesa e a un passo dalla Pma, ci eravamo riusciti. A poche settimane dalla nascita del nostro «serpellino» ho deciso di raccontare la mia storia a lieto fine per far sapere a tutte quelle donne che, come me, hanno ricevuto una diagnosi di infertilità che non sono sole e non devono sentirsi come tali. Bisogna normalizzare questa condizione, partendo prima di tutto dalle donne stesse oltre che dalla società nella quale viviamo.
Paola Turani