L’effetto placebo esiste, e vale non solo per la lotta al dolore, ma anche per combattere le malattie infiammatorie. Uno studio lungo due anni compiuto dal dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Torino, e pubblicato oggi su Nature Medicine, dimostra che sia gli antidolorifici sia gli anti-infiammatori creano nel nostro cervello un’impronta.
E’ quell’impronta è in grado di attivare gli stessi effetti della cura solo al pensiero di aver preso il farmaco. Anche quando il farmaco, in realtà, è una sostanza inerte, cioè nulla. Quando un malato crede nella terapia, quando ha fiducia nel proprio medico e si aspetta – grazie a lui – un miglioramento clinico, il suo cervello rilascia endorfine (una sostanza simile alla morfina) se si tratta di contrastare il dolore, ma anche endo-cannabinoidi (simili alla cannabis presente nella marijuana) se il problema è invece un’infiammazione da combattere.
Coordinatore di questo studio destinato a riaprire il dibattito fra scienziati, e sicuramente anche un confronto fra gli scettici del placebo, è Fabrizio Benedetti, docente di Fisiologia all’Università di Torino e consultant al National Institute of Health a Bethesda e alla Mind Brain Behavior Initiative della Harvard University.
Al momento non si sa, esattamente, in che cosa consista questa «impronta», né dove si accenda l’interruttore della memoria farmacologica all’interno del sistema nervoso. Ma lo studio ha dimostrato che il placebo anti-dolore, come quello anti-infiammatorio, attivano gli stessi recettori ai quali si legano i farmaci specifici, e innesca quindi la medesima procedura della terapia. Quali sostanze si attivano durante l’effetto placebo (endorfine oppure endocannabinoidi) dipende ovviamente da quali farmaci il paziente ha assunto in precedenza. Cioè dal tipo di memoria che si è creata.
Lo studio è stato compiuto sull’uomo, tra pazienti volontari. Per un certo periodo sono stati somministrati farmaci veri, ottenendo miglioramenti. Poi si è passati – ovviamente all’insaputa dei volontari – alla sostanza placebo. In tutti i casi è scattato in loro il condizionamento: la persona che ha imparato ad associare l’assunzione di una compressa con una determinata forma e un certo colore alla scomparsa di un sintomo, ottiene lo stesso beneficio anche quando all’interno della compressa – stessa forma, stesso colore – non è contenuto alcun principio attivo, ma il placebo.
Studi precedenti hanno già dimostrato che in questo effetto-memoria a livello cerebrale ha un ruolo fondamentale il rapporto con il medico: soltanto se lo specialista è in grado di convincere il paziente che il farmaco (vero) che sta assumendo lo farà stare meglio, il placebo che prenderà avrà il medesimo risultato della terapia. Cioè attivare ogni volta i recettori delle endorfine contro il dolore o degli endocannabinoidi contro le malattie infiammatorie.
Benedetti dedica da anni gran parte della propria attività di ricerca agli studi sull’effetto placebo. Quanto ha scoperto insieme ai ricercatori dell’Università di Torino è dimostrato in un arco di tempo relativamente breve. Il che è un presupposto non sufficiente per poter sostenere che lo stesso risultato vale anche a distanza di anni, per malati cronici: «Al momento non possiamo dire ai medici o agli ospedali di sostituire i farmaci con le sostanze inerti che innescano l’effetto placebo perché non c’è dimostrazione scientifica del meccanismo a distanza di anni. Sicuramente, però, possiamo dire che si può ridurre l’uso dei medicinali, alternando farmaci a placebo, soprattutto quando i farmaci possono creare importanti effetti collaterali».
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