C’era una volta e… c’è oggi un castello a Passirano, circondato da ettari di vigneti in quel regno del vino che è la Franciacorta, nel quale vive un marchese, discendente di un’antica famiglia aristocratica famosa (anche) per la produzione di bollicine, che non tocca più l’alcol in pratica da quando aveva 22 anni. Oggi ne ha 85, compiuti a marzo. In mezzo, 692 interventi di chirurgia epatica che ne fanno un pioniere del trapianto di fegato.
«Non sono mai stato un forte bevitore, ma da quando al terzo anno di medicina all’università ho iniziato a lavorare in ospedale, ho smesso completamente… nonostante la mia famiglia da più di un secolo producesse vino in queste terre. Certo, con questo non nego che un bicchiere di quello buono durante i pasti faccia anche piacere…», sorride Luigi Rainero Fassati, primogenito del marchese Giuseppe Ippolito Fassati di Balzola e di Luisa Maria, figlia del conte Iro Bonzi e di Sarina Nathan. Mezzo secolo di storia della medicina trascorso tra le sale operatorie del Centro Trapianti di Fegato della Fondazione Ca’ Granda Policlinico di Milano, del quale ereditò la direzione dal fondatore, Dinangelo Galmarini, e le aule dell’università dello stesso capoluogo lombardo, con una fondamentale parentesi presso il Pittsburgh Transplantation Institute di Thomas E. Starzl, l’autore del primo trapianto di fegato umano (1963). Una missione, quella di Fassati, che neanche la pensione ha fermato.
Professore, lei da 14 anni si dedica a spiegare nelle scuole i danni causati dall’alcol, oltre ad averci scritto un libro (Mal d’alcol, Salani).
«A spingermi sono stati i molteplici casi che ho dovuto affrontare di giovani arrivati in pronto soccorso in coma etilico, che in diverse occasioni ho dovuto addirittura trapiantare di fegato, e di altri ragazzi con il fegato gravemente danneggiato dall’abuso di alcol».
Come rispondono i ragazzi alle sue lezioni?
«Dal 2007 a oggi ho incontrato più di 70mila ragazzi nelle scuole di Milano, provincia e di altre regioni, ai quali ho esposto i pericoli dell’abuso di alcol. Le mie lezioni si basano su esperienze da me vissute in prima persona e sono corredate da diapositive che dimostrano le drammatiche conseguenze dell’alcolismo acuto e cronico. L’attenzione degli alunni è sempre al massimo e i feedback testimoniano la validità di questa mia iniziativa».
Intanto è stato documentato un aumento dei consumi di alcolici durante la pandemia, che preoccupa ancor più se associato alla maggiore tendenza al bere registrata in occasione dell’epidemia di Sars, di catastrofi naturali e degli attentati terroristici.
«Purtroppo è vero, una recente statistica di Idealo ha comunicato che le vendite di alcol sono cresciute del 209% durante la pandemia del Covid-19. Questo perché i ragazzi, non andando in classe con gli altri compagni, erano soli, chiusi in casa, con difficoltà a vedere fidanzati e fidanzatine, magari con i genitori che litigavano o litigando loro stessi con mamma e papà. Ai giovani mancava una parte importante della vita di relazione e questo ha provocato la necessità di trovare un qualche conforto o, perlomeno, di obliare questi momenti difficili. Agli studenti dico sempre che l’alcol è una calamita che si fissa nel cervello e non ci lascia più. Se beviamo troppo soprattutto da giovani, nei momenti di depressione, stanchezza o disagio questa calamita si rifarà sempre viva: “Ti ricordi come stai meglio se bevi?”».
In una passata intervista ha legato la propensione giovanile a stordirsi con l’alcol con la morte della famiglia. In che senso?
«Il rapporto genitori-figli è fondamentale nel determinare il comportamento dei ragazzi nei confronti dell’alcol. Nel caso in cui non ci sia una buona relazione, la percentuale dei giovani a rischio di bere in modo smodato è del 16%, invece nelle famiglie in cui ci sono intesa e comunicazione solo l’1% dei ragazzi va incontro ad abuso di alcol».
A proposito di famiglia, lei è un marchese da parte di padre, mentre da parte di madre discende dai Nathan, ebrei, liberali e mazziniani. Suo zio materno, inoltre, era il conte Leonardo Bonzi, una vera leggenda: alpinista, aviatore, esploratore, tennista, produttore di documentari e… marito di Clara Calamai. Ce n’è quanto basta per scrivere una saga: quanto ha ispirato Il testamento del conte Inverardi, pubblicato per Salani sotto pseudonimo? «Amori, tradimenti, intrighi e denari ai piani alti della società nella provincia italiana. L’autore li deve conoscere bene quei piani alti, poiché ne scrive – limpidamente – con cognizione di causa e grande passione», è stata la recensione di Isabella Bossi Fedrigotti.
«Ho bei ricordi di mio zio Leonardo, al quale pare che somigli in certi tratti del carattere. A zia Clara, invece, mio fratello e io chiedevamo spesso di venire a prenderci all’uscita della scuola per fare una gran scena su tutti i compagni del liceo Parini, che restavano a bocca aperta! Ho scritto Il testamento del conte Inverardi con lo pseudonimo di Luigi Valloncini Landi perché è l’unico mio romanzo che non tratta di argomenti medici. Il libro è in gran parte autobiografico, ispirato alla mia vita da ragazzo di una famiglia aristocratica molto originale e fuori dagli schemi borghesi. I protagonisti sono quasi tutti personaggi che fanno parte dell’alta società lombarda per il loro blasone o la loro ricchezza, amici dei miei nonni e dei miei genitori. Qualcuno dei loro discendenti avrà certamente ricordato i fatti accaduti».
I Fassati-Bonzi-Nathan come presero la sua decisione di diventare chirurgo?
«Mia madre Luisa sapeva di questa mia scelta fin da quando avevo quattro anni: lei era incinta di mia sorella minore e le avevo dichiarato che avrei fatto il chirurgo perché volevo vedere se veramente c’era un bambino nella sua pancia ingrossata. Quando mi iscrissi a medicina tutti gli altri parenti furono ben contenti perché avrebbero usufruito delle mie cure!».
A titolo gratuito, ovviamente.
«Però a inizio carriera ho subito le mie umiliazioni. Gli amici dei miei genitori mi raccomandavano le loro cameriere se avevano qualche problema di salute, ma, se lo stesso guaio capitava a loro stessi, mi chiedevano: “Puoi dirmi da quale chirurgo andare a farmi operare?”. Per loro ci voleva il nome famoso… Poi le cose sono cambiate».
Perché proprio chirurgo e, poi, specializzato nel trapianto di fegato, con studi sui maiali e, quindi, il trasferimento negli Stati Uniti a lavorare con Starzl?
«Nel 1968 entrai a fare parte dell’équipe guidata dal professor Dinangelo Galmarini, del Policlinico universitario di Milano, il quale si preparava sperimentalmente a fare i trapianti di fegato sugli animali che più hanno quest’organo simile al nostro, i maiali. Fu lui a chiedermelo e io accettai con entusiasmo la sua affascinante proposta che mi apriva la strada di una chirurgia innovativa e inesplorata. Nel 1982 mi recai per diversi mesi a Pittsburgh dal pioniere dei trapianti di fegato, Thomas Starzl, e, grazie a quanto appreso da lui, al mio rientro in Italia fummo in grado di fare il primo trapianto a Milano. Tornai più volte negli anni seguenti a Pittsburgh da Thomas, con il quale nacque un rapporto di sincera amicizia durata fino al giorno della sua morte».
Il suo maggior successo in sala operatoria tra i quasi 700 interventi eseguiti in carriera?
«Senza dubbio l’intervento più difficile con esito molto positivo è stato quello eseguito a fine anni 90 su un ragazzo arrivato in ospedale in fin di vita col fegato spappolato a causa di un incidente stradale provocato dalla sua ubriachezza. Necessitava di un immediato trapianto. Purtroppo in quel momento non c’erano donatori disponibili in tutta Europa e, pur non avendone uno di ricambio, fui costretto ad asportare il fegato per bloccare l’emorragia. Ero convinto che senza l’organo avrebbe potuto vivere più tempo di quello che gli lasciava l’emorragia. Fu mantenuto in vita per più di 20 ore in rianimazione fino a quando arrivò un donatore e riuscii a fare il trapianto».
Qual è l’eredità che lascia o vorrebbe lasciare ai suoi giovani colleghi?
«Ho lasciato una preziosa eredità: i quattro miei più validi collaboratori sono professori ordinari e direttori di prestigiosi reparti di chirurgia e trapianti. Il professor Giorgio Rossi ha preso il mio posto al Policlinico di Milano, il professor Luciano De Carlis dirige il dipartimento di chirurgia e trapianti dell’ospedale di Niguarda, il professor Michele Colledan ricopre la stessa posizione all’ospedale Giovanni XXIII di Bergamo e il professor Bruno Gridelli è stato incaricato dall’Università di Pittsburgh di sovrintendere l’attività trapiantologica di numerosi centri europei di trapianti. La mia più grande soddisfazione è di essere riuscito a creare una vera scuola dove si sono formati i migliori chirurghi».
Nel suo ultimo libro, Un tempo per guarire (Salani), racconta le storie cliniche di pazienti affetti dalle medesime patologie curati da lei negli anni 90 e nella prima decade del 2000. Quali sono state le tre principali conquiste della scienza in questo periodo di grandi passi in avanti?
«Nelle pagine introduttive sostengo che le più importanti conquiste della ricerca medica si sono realizzate grazie a tre scoperte fondamentali: gli antibiotici per il progresso della terapia medica, il robot da Vinci per quello della chirurgia e le immagini della TAC e della Risonanza Magnetica Nucleare per la diagnostica. Ma oggi voglio senz’altro aggiungere la scoperta degli anticorpi monoclonali e dei nuovi vaccini. I primi sono degli anticorpi prodotti artificialmente in laboratorio molto validi per la terapia immunologica dei tumori, dell’artrite reumatoide e di altre malattie. I secondi, ottenuti con la tecnologia del RNA messaggero, stimolano la produzione della proteina S e inducono una risposta immunitaria contro il virus. Tutti ne abbiamo avuto la prova in questo drammatico periodo di pandemia da Covid-19».
Quale sarà, invece, l’obiettivo che la medicina raggiungerà nei prossimi cinquant’anni?
«Nei prossimi anni uno degli obiettivi principali della ricerca sarà quello di allungare il più possibile la vita media dell’uomo, sia attraverso la prevenzione e la cura delle malattie, sia cercando metodiche nuove contro il deterioramento del cervello umano».
Dove, invece, la scienza nell’ultimo mezzo secolo è regredita?
«La scienza non regredisce mai, può soltanto avere momenti di maggiore o minore successo. Ciò che, invece, è cambiato, purtroppo in peggio, è il rapporto medico-paziente, perché il continuo aumento della burocrazia sottrae molto tempo ai medici che si sentono ormai loro malgrado più dei passacarte che dei dottori. Per esempio, in ospedale per fare una radiografia del torace a un paziente ricoverato occorre riempire almeno tre o quattro moduli».
In questo contesto storico come inseriamo la creazione del Sistema sanitario nazionale, istituito dalla legge 833 del 1978 con decorrenza dal 1980? In questa emergenza Covid sono emerse diverse pecche…
«Sarebbe opportuno aggiornare le leggi dando maggiore sviluppo alla medicina territoriale e maggiori finanziamenti a tutto il sistema sanitario. L’attuale pandemia di un virus completamente sconosciuto, aggressivo ed estremamente contagioso, ha messo in luce diverse carenze del Sistema sanitario nazionale. In particolare, in un primo tempo c’è stata una mancanza di coordinamento tra il Governo centrale e le Regioni, sia per la fornitura di strumenti protettivi contro il contagio, sia per la mancanza di posti letto negli ospedali e, in un secondo tempo, per ritardi nell’approvvigionamento dei vaccini e nei criteri di scelta prioritaria per la loro somministrazione».
Sulla Carta, intendendo la nostra Costituzione, la salute è tutelata «come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti». E nella pratica?
«Nel nostro Paese il criterio di fornire le cure gratuite per tutti i malati è un cardine fondamentale. Ho avuto conferma della validità e dell’importanza di ciò durante i miei lunghi periodi di lavoro negli ospedali americani. Lì ho assistito a situazioni drammatiche di persone prive di assicurazioni sanitarie e costrette a vendere ogni bene per potersi curare. Nel caso dei bambini venuti dall’Italia per il trapianto di fegato, ogni giorno trascorso in rianimazione costava dai tre ai quattromila dollari. Non trovo, dunque, giusto parlare di malasanità in Italia, anche se attualmente le liste d’attesa per visite e interventi chirurgici tramite il Servizio sanitario nazionale sono spesso troppo lunghe e i pazienti sono in difficoltà. Questo problema andrebbe affrontato seriamente e in tempi brevi».
Luigi Rainero Fassati, un chirurgo che è anche uno scrittore di successo, con il premio selezione Bancarella 1979 per Avanti un altro (Sperling & Kupfer). Lei ha portato gli ospedali al centro della narrativa italiana. Quanto c’è di vero e quanto di fiction in questi romanzi? Pensiamo all’ambiguo e nepotista professor Bandini di Medici (Longanesi), all’empatico dottor Giani Landi e alle storie d’amore in corsia di Gli incerti battiti del cuore (Longanesi) o alla dottoressa serial killer Bianca Moncada di Goccia a goccia (Longanesi). Anche in questo caso vale la sopra citata recensione di Isabella Bossi Fedrigotti: lei conosce benissimo l’ambiente.
«È più realtà che fiction. Per oltre cinquant’anni ho passato molto più tempo in ospedale che a casa. Le mie amicizie più strette sono nate in ospedale e qui ho vissuto giorno e notte a contatto con malati, colleghi, infermieri. Qui ho avuto esperienze di ogni genere e ho provato momenti di grande gioia e altri di profondo sconforto. Il professor Antonio Bandini, per esempio, con la sua aria dimessa, la sua finta bonarietà, la sua apparente timidezza, è in realtà un primario potente, in cattedra da trent’anni, spietato nei suoi giudizi, capace di annientare senza scrupoli la donna che lo ama e che per anni lo ha servito e riverito sacrificando la sua vita. Nel libro Medici, di fiction c’è solo il suo nome e cognome. Il dottor Gianni Landi, invece, protagonista di Gli incerti battiti del cuore, sono un po’ io stesso e, la storia d’amore con la donna che ho chiamato Ginevra, l’ho vissuta veramente. Così come è reale la tragica fine della bellissima infermiera amante di un mio collega, che da lui viene lasciata quando si ammala di cancro e muore più per il dolore dell’abbandono che per il tumore. Per contro, non ho mai conosciuto personalmente la dottoressa che in Goccia a goccia ho chiamato Bianca Moncada, ma ho seguito passo dopo passo tutta la vicenda del personaggio che l’ha ispirata perché il suo avvocato difensore è tuttora uno dei miei più cari amici e mi contattava spesso per avere chiarimenti medici. È vero: l’ambiente lo conosco benissimo».
Da dove nasce la sua passione per la scrittura?
«Nasce dall’amore per la lettura, sorto all’improvviso a 15 anni con la scoperta del Decamerone. E nasce anche dalla mia professione di medico, che ho sempre svolto con indispensabile distacco entrando in sala operatoria ma con una grande partecipazione affettiva quando mi trovavo di fronte ai malati con le loro drammatiche storie e durante i colloqui con i loro parenti».
Quali sono i suoi autori preferiti? Immaginiamo Giovanni Boccaccio…
«Non c’è dubbio. Sono un lettore appassionato, al pari di mia moglie, e, a parte i classici, vi citerò solo alcuni contemporanei che mi vengono in mente in questo momento. Tra gli italiani, Elsa Morante, Leonardo Sciascia, il mio amico Attilio Veraldi, Italo Calvino, Primo Levi. Tra gli stranieri, Isaac Bashevis Singer, John Fante, Ernest Hemingway, Franz Kafka, Joseph Roth, Georges Simenon, Joseph Conrad, Louis-Ferdinand Céline. E tanti altri».
Dovesse scrivere il romanzo della sua vita, come lo intitolerebbe?
«Vita da chirurgo. E lo sto scrivendo. Voi siete i primi a saperlo».
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