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Giulia Bevilacqua: «Sono tornata in terapia per amore dei figli»

La prima volta che l'attrice è andata in analisi aveva 24 anni, l’ultima quest’anno, che ne ha 44. Ha capito che non si smette mai di lavorare sulla propria salute mentale e che con i bambini bisogna parlare subito di sentimenti, sia belli che brutti

Quando Giulia Bevilacqua si racconta per la copertina di OK Salute e Benessere è appena tornata da Venezia, dove ha calcato il tappeto rosso del Lido in occasione dell’apertura dell’80° Mostra del Cinema. Un luogo che sogna e si porta nel cuore fin da piccolina, quando i genitori le facevano visitare la Biennale. «Mi hanno cresciuta con le cose belle. Non solo arte e architettura, ma anche con la musica classica. Le mie amiche a scuola parlavano di cantanti pop, mentre io a casa ascoltavo Bach», ricorda l’attrice romana.

«Un tempo non capivo quanto potesse essere complicato fare i genitori e crescere i figli in modo sano. Oggi che sono mamma di due (Vittoria, di cinque anni, ed Edoardo, di tre, ndr) comprendo meglio tutte le difficoltà e non posso che essere grata di come mi hanno cresciuta». Ed è proprio da casa di sua madre, che è andata a trovare per qualche giorno, che Giulia Bevilacqua si confida, descrivendo non solo il suo rapporto con la psicoterapia, ma anche il desiderio di un’educazione sentimentale trasversale, che parta dagli adulti e arrivi ai figli.

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Non tutte le persone riconoscono il bisogno di un confronto e un supporto psicologico. Perché pensa che sia così importante?

«Sogno un mondo in cui in famiglia e a scuola si parli maggiormente di sentimenti e affettività. Penso che la cura della propria salute mentale sia basilare tanto quanto quella fisica. Oggi i rapporti umani sono sempre più filtrati dal telefono e dalle piattaforme social, e così siamo meno abituati a ritagliarci del tempo per ascoltarci e capire i nostri sentimenti, le nostre fragilità, le nostre paure. Credo che imparare a farlo, fin da piccoli, possa aiutare molto. Anche a ridurre gli episodi di violenza di cui sono piene le cronache dei giornali».

Lei quando ha iniziato a ritagliarsi del tempo per se stessa e ad ascoltarsi?

«La prima volta che mi sono rivolta a uno psicologo avevo 24 anni. Ero insofferente, sentivo di non essere in grado di comprendere quali erano i miei bisogni, soprattutto nel rapporto di coppia. Mi arrabbiavo per cose che non mi facevano davvero arrabbiare, pensavo che la ragione fosse solo dalla mia parte, volevo controllare tutto intorno a me perché le cose o si facevano come dicevo io, oppure non erano giuste. Questo, ovviamente, creava tensione nel rapporto con il mio partner e mi faceva stare male».

In che modo la psicoterapia l’ha aiutata?

«Il mio terapeuta, che era un comportamentalista, mi ha fatto capire che mettevo in scena degli automatismi. Tendevo a ripetere dinamiche che mi erano familiari e mi facevano sentire a mio agio, ma che non erano realmente ciò che volevo. Ho compreso che si trattava di schemi che vedevo fin da bambina, in famiglia per esempio. Mi rendo conto che le mie sono sciocchezze in confronto a problemi più seri, a realtà familiari violente, fisicamente o psicologicamente, ma tutto, anche ciò che all’apparenza può sembrare una banalità, può minare la felicità e il benessere di una persona e di chi le sta intorno».

«I primi anni sono stati duri, ma la terapia mi ha aiutata a lavorare sulla mia consapevolezza e a scardinare questi comportamenti. Ho imparato a lavorare sull’ascolto, non solo personale, ma anche dell’altro, sentendone ragioni e convinzioni, capendo che nella diversità si può convivere. Prima ero istintiva, avevo bisogno di essere dalla parte della ragione, dopo tutto è cambiato».

Questi schemi si innescavano anche sul lavoro?

«Sì, perché ovviamente quando hai la mania di controllare tutto ciò che hai intorno a te e la necessità di avere ragione, diventi automaticamente meno malleabile, aperta alla critica e alla ricezione di ciò che viene detto dall’altro se è diverso da quello che pensi tu. Scardinare questo atteggiamento mi ha permesso di aprimi molto di più, anche nei rapporti lavorativi. Ho iniziato ad accettare gli sbagli, a cadere e avere il coraggio di dire “Ok, errore mio, ricomincio”, di accettare e imparare dalle critiche».

La psicoterapia l’ha resa anche una mamma migliore?

«Il mestiere di genitore è il più difficile del mondo. Se non si è risolti rispetto a delle questioni, per forza di cose quei problemi verranno trasmessi ai figli. I genitori non sono sempre in grado, e non ne faccio una colpa, di trasmettere amor proprio, rispetto per se stessi e per gli altri. Quindi in questo senso sì, la psicoterapia mi ha insegnato ad ascoltare le mie emozioni, ad affrontarle e questo cerco di insegnarlo anche ai miei figli».

In che modo?

«Chiedo sempre il perché. Perché ti sei arrabbiato? Perché stai dicendo questo? Cerco di far capire loro che è importante l’emozione che stanno vivendo. Ogni tanto mi accorgo che non mi stanno del tutto dietro, dopotutto sono ancora piccoli, ma non importa: se io faccio capire loro che i sentimenti esistono e vanno ascoltati, magari tra due, tre, quattro anni mi sorprenderanno aprendosi in modo spontaneo e spiegandomi dubbi, incertezze, paure. Credo molto nel dialogo tra genitori e figli. Riconoscere le proprie emozioni è il primo passo per affrontarle e far sì che non abbiano il sopravvento su di noi».

«Perché tutti noi possiamo provare rabbia, odio, frustrazione, e anche istinti più forti, nessuno di noi si salva da questo. Eppure se riusciamo a capire la natura e l’origine di queste emozioni possiamo evitare che sfocino in qualcosa di più grande e di più grave. Un’altra cosa che ho capito nella comunicazione con i miei figli è che se ci sono situazioni per cui bisogna accettare di non sapere dire o spiegare qualcosa, è giusto chiedere aiuto».

A lei è capitato?

«Sì, proprio quest’anno, quando tutta la mia famiglia ha dovuto affrontare un lutto. E dato che questo lutto ha riguardato, oltre che il mio nucleo familiare, anche la comunità scolastica frequentata da mia figlia, io e mio marito abbiamo avuto l’occasione di seguire una terapia di gruppo, per quasi un mese, che aveva l’obiettivo di aiutarci a parlare di morte con i nostri figli».

Che esperienza è stata la terapia di gruppo?

«Prima che iniziasse stavo molto male, avevo attacchi di panico, temevo di non riuscire a gestire la situazione, di commettere passi falsi. Condividere le mie paure con gli altri genitori, invece, è stato prezioso, non solo perché mi sono sentita meno sola, ma anche perché ho ascoltato le emozioni degli altri, simili e diverse in base al passato, al vissuto e al carattere di ognuno. È stato uno scambio arricchente, anche perché poi, piano piano, abbiamo acquisito gli strumenti per affrontare il discorso con i nostri figli».

Di cosa aveva paura?

«Oltre alla tristezza che questo evento ha provocato in tutti noi, a un certo punto è subentrata la paura di non riuscire a parlarne, oppure di farlo in modo sbagliato, traumatizzando i bimbi. Senza la terapia di gruppo e l’aiuto della psicologa messa a disposizione della scuola forse avremmo fatto dei passi falsi. Grazie all’impegno di noi genitori, e poi anche della maestra che ha lavorato sul tema della condivisione, i bambini hanno invece capito che parlare dei propri sentimenti, sia belli che brutti, può aiutare a ridimensionarli».

«Mi è rimasta in mente una metafora utilizzata dall’insegnante: il dolore era simboleggiato da un buco nella pancia dei bambini, che a loro faceva paura, ma se provavano a guardarci dentro, si rendevano conto che al suo interno c’erano anche mondi fantastici, e se li legavano insieme, l’uno all’altro, facevano meno paura. È stato un bel modo per dire che quando si parla insieme del dolore, questo può diventare più sopportabile».

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Giulia Masoero Regis

Giornalista pubblicista, collabora con OK Salute e Benessere, sito e giornale, e altre testate di divulgazione scientifica. Laureata in Scienze Politiche, Economiche e Sociali all'Università degli Studi di Milano, nel 2017 ha vinto il Premio Giornalistico SID – Società Italiana di Diabetologia “Il diabete sui media”; nel 2018 il Premio DivulgScience nel corso della XII edizione di NutriMI – Forum di Nutrizione Pratica e nel 2021 il Premio giornalistico Lattendibile, di Assolatte, nella Categoria "Salute". Dal 2023 fa parte del comitato scientifico dell’associazione Telefono Amico Italia.
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