Le grandi intervisteNews

Giacomo Rizzolatti: «Il mondo studia i miei neuroni specchio»

Giacomo Rizzolatti ha guidato il team che all’inizio degli anni Novanta ha scoperto le cellule del cervello alla base della comprensione delle azioni e delle emozioni altrui. Oggi spiega perché la sua intuizione continua a essere oggetto di ricerche scientifiche

Di tutte le scoperte scientifiche, quella dei neuroni specchio è una delle più avvincenti di sempre. Il motivo è semplice: hanno a che fare con la vita di tutti i giorni, con la capacità di capire gli altri, di emozionarsi guardando un film, di compatire un amico che sta male, di sentirsi partecipi osservando una gara.

In questo articolo

Neuroni specchio come fondamento dell’empatia

Sono il fondamento scientifico dell’empatia, la parola magica che negli anni Novanta ha infuocato il dibattito di sociologici, filosofi e psicologi, ma allo stesso tempo sono stati, e sono ancora oggi, oggetto di studio di neuroscienziati di tutto il mondo, che tentano di capirne il ruolo nell’autismo, in alcune malattie psichiatriche e l’utilità per nuove tecniche di riabilitazione. La paternità è tutta di Giacomo Rizzolatti, oggi 85 anni, ma 55 nel 1992, anno in cui all’istituto di fisiologia umana di Parma ne scopre l’esistenza.

Gruppo San Donato

Chi avrebbe mai pensato che tre decenni dopo il famoso esperimento sulle scimmie, i cosiddetti mirror neurons avrebbero continuato ad alimentare filoni di ricerca e, soprattutto, speranze?

«Per me non può che essere una soddisfazione, ci sono implicazioni mediche che stanno nascendo solo adesso, come quella della riabilitazione e dei disturbi psichiatrici», commenta il neuroscienziato, nato a Kiev alla vigilia della Seconda guerra mondiale, ma subito rimpatriato in Friuli con l’intera famiglia, espulsa dall’Unione Sovietica. Formatosi a Padova e a Pisa, poi professore a Parma, oggi Rizzolatti conta oltre 250 pubblicazioni scientifiche internazionali, l’affiliazione a prestigiose accademie, come quella italiana dei Lincei e la britannica Royal Society, e il più importante dei riconoscimenti nell’ambito delle neuroscienze, il Brain Prize. Sulla mensola dei trofei manca solo il Nobel.

Professor Rizzolatti, in poche parole, cosa sono i neuroni specchio?

«Sono neuroni potenzialmente in grado di replicare e quindi far capire, a chi la guarda, un’azione fatta da un altro individuo. Ecco perché quando assistiamo a una partita di calcio o vediamo persone che ballano la nostra partecipazione è molto intensa e va al di là della semplice osservazione. Ma ci servono anche per comprendere le emozioni altrui, per essere empatici. In concreto, se io vedo una persona ridere o piangere, nel mio cervello si attivano gli stessi neuroni che mi fanno ridere o piangere».

Avete scoperto queste cellule nelle scimmie nel 1992. Cosa accadde durante l’esperimento?

«Fu molto inaspettato. Fino ad allora eravamo convinti che i nostri neuroni motori si attivassero solo quando compivamo un’azione. Invece ci siamo messi a studiare cosa succedeva nel cervello delle scimmie quando osservavano un’azione altrui: ad esempio, prendere il cibo e metterlo in bocca. Lì sono incominciate le sorprese: il sistema motorio rispondeva agli stimoli visivi e quando la scimmia guardava lo sperimentatore afferrare un oggetto il suo neurone motorio si attivava come se lo stesse facendo lei. Per questo l’abbiamo chiamato mirror, specchio. I miei giovani colleghi erano entusiasti, volevano pubblicare subito i risultati. Io invece rimasi più cauto e decisi che dovevamo fare altre prove. Passarono quattro anni, poi finalmente nel 1996 pubblicammo la scoperta sulla rivista Brain, la più importante in neurologia».

Quando avete capito che anche l’uomo possedeva i neuroni specchio?

«La scoperta dei neuroni specchio nell’uomo risale al 1996 grazie a un esperimento fatto con la tomografia basata sull’emissione di positroni (Pet) in collaborazione con il San Raffaele di Milano, che per fortuna era vicino a Parma, e dove il direttore di neuroradiologia era Ferruccio Fazio, mio amico dai tempi dell’Università di Pisa. Tramite la Pet abbiamo visto che anche nel cervello umano, quando si osserva un’azione, si attivano le aree motorie e non solo quelle visive».

Lei ha detto spesso che i neuroni specchio sono stati e sono fondamentali per la sopravvivenza. Cosa significa?

«I mirror ci permettono di capire l’azione che vediamo, ma anche il suo scopo. Questo l’abbiamo notato subito anche nelle scimmie. Vuol dire che se io osservo una persona afferrare un bicchiere in un bar capisco che lo fa per bere, ma poter prevedere cosa farà l’altro è molto importante nella sopravvivenza perché se dai movimenti e dalle azioni di una persona io capisco che vuole attaccarmi, scappo. Diciamo che sono proprio il nostro strumento cardinale per capire gli altri, costruire delle relazioni o eventualmente proteggerci».

E invece come avete scoperto che questi neuroni hanno a che fare anche con l’empatia e quindi con le emozioni?

«Attraverso il disgusto. L’intuizione è arrivata da un collega straniero, perciò l’esperimento l’abbiamo eseguito a Marsiglia, con l’aiuto di un gruppo di attori di teatro e studenti. Nella prima parte del test abbiamo stimolato i soggetti con odori cattivi e abbiamo visto che si attivava una parte del cervello chiamata insula. Successivamente abbiamo mostrato loro gli attori che facevano smorfie di disgusto e con nostro grande piacere abbiamo constatato che nel cervello si attivava la medesima area di quando loro stessi avevano annusato l’odore spiacevole. Così abbiamo capito che i neuroni specchio ci servivano anche a comprendere e vivere le emozioni altrui».

La nostra capacità di essere empatici è uguale sia che io veda una persona mentre vive un’emozione vera, sia quando ciò avviene tramite la finzione, in un film o a teatro?

«Non è esattamente così. È stato dimostrato in Giappone che se io osservo un delinquente che aggredisce qualcuno dal vivo empatizzo molto: gli occhi si dilatano, il cuore batte, la pressione sale. Se invece vedo la stessa scena in un filmato l’immedesimazione è inferiore. E lo è ancora di meno se so che ciò che osservo è finzione. Però l’emozione c’è sempre, altrimenti non piangeremmo guardando i film drammatici».

Il marketing e la pubblicità sfruttano i nostri neuroni specchio per convincerci ad acquistare un prodotto?

«Molte aziende fanno ricerche per capire come poter utilizzare a loro favore i neuroni specchio, che però non sono l’unico fattore coinvolto nelle strategie di comunicazione, un po’ perché ci sono altri meccanismi psicologici inconsci che si innescano, come il condizionamento; un po’ perché quando osserviamo una pubblicità sappiamo bene che è una messa in scena».

Nasciamo con i neuroni specchio oppure arrivano dopo, crescendo e imparando?

«Entrambe le cose. Da una parte sono innati: dopotutto, se a un neonato fai vedere la lingua, lui risponde replicando il gesto, proprio per la presenza di neuroni specchio. Poi il resto si apprende anche. C’è un bellissimo esperimento condotto in Olanda, dove è stata usata la tecnica dell’encefalogramma per osservare il cervello dei bambini. Gli scienziati hanno visto che i neuroni specchio dei bimbi che non sanno ancora camminare non si attivano quando vedono altri coetanei farlo. Però si attivano se osservano i bambini gattonare, cioè un’azione che loro hanno già appreso. Crescendo, le cose cambieranno quando impareranno anche a camminare».

Quindi se osserviamo azioni che non siamo in grado di fare, tipo un’acrobazia molto difficile alle Olimpiadi, in noi non si attivano i neuroni specchio?

«È più o meno così. Io non sono Messi, ma ho giocato a calcio da bambino e il calcio lo capisco, quindi il movimento del calciare evoca in me qualcosa, comprendo il gioco e vengo coinvolto quando assisto a una prodezza dell’asso argentino. Però chiaramente non saprei replicare quello che fa lui solo grazie ai neuroni specchio. Dovrei allenarmi molto e probabilmente ancora non basterebbe».

È per questo motivo che i mirror sono preziosi oggetti di studio nelle tecniche di riabilitazione?

«Noi abbiamo iniziato a utilizzarli con questo fine all’inizio del secolo, però era complicato perché la tecnologia non era quella moderna. Adesso, grazie alla realtà virtuale aumentata, mostriamo al paziente in riabilitazione dei movimenti e l’effetto sui neuroni specchio è molto forte: l’attivazione dei mirror induce a una facilitazione dell’azione e quindi a un apprendimento motorio più rapido. All’inizio noi pensavamo fossero efficaci solo per la riabilitazione di una paralisi cerebrale, ad esempio post ictus, ma alcuni ricercatori hanno scoperto che possono funzionare anche per il Parkinson e attualmente al San Raffaele si studiano anche per la sclerosi multipla. Il collega Adriano Ferrari, professore nella facoltà di medicina e chirurgia all’Università di Reggio Emilia, invece, li ha utilizzati nella riabilitazione dei bambini con paralisi cerebrale, scoprendo l’efficacia dell’apprendimento per imitazione. Questi studi sono una rinascita nell’interesse del meccanismo specchio».

Ci sono persone a cui mancano i neuroni specchio?

«Non c’è niente di davvero dimostrato su questo, ma è uno dei campi in cui si stanno studiando sono i disturbi psichiatrici noti per essere caratterizzati da una mancanza di empatia, come il narcisismo e il disturbo borderline. Poi c’è l’autismo. Qualcuno sostiene che il deficit del meccanismo mirror sia la causa del disturbo autistico, perché in effetti gli autistici faticano a comprendere le azioni e le emozioni altrui, ma lo spettro autistico è talmente vasto che trovare una causa comune mi sembra troppo semplicistico. Sicuramente un test efficace per capire se un bimbo appena nato può essere autistico è vedere se replica i gesti dell’adulto, ad esempio la linguaccia o il gesto dell’abbraccio. Se resta passivo potrebbe essere un campanello d’allarme».

E gli assassini, i sadici? A loro non mancano i neuroni specchio?

«L’empatia dei neuroni specchio di cui parliamo noi neuroscienziati ha parametri fisiologici, nel senso che ci permette di capire l’emozione altrui in modo razionale e tramite un meccanismo questa emozione può diventare anche la nostra, perlomeno sulle emozioni di base oggetto dei nostri studi. Tutto ciò significa che abbiamo la capacità di essere empatici, ma questo non c’entra con l’essere buoni. Infatti esiste anche l’empatia nera, quella dell’assassino o del sadico, a cui piace vedere la sofferenza altrui».

Nella storia, però, ci sono stati e ci sono eventi, come le dittature e le guerre, dove al di là del singolo, un’intera massa sembra mancare di empatia verso un altro popolo o una minoranza. I neuroni specchio hanno un ruolo nella manipolazione delle coscienze e nella propaganda?

«Come scrivo in uno dei miei libri, la peculiarità di questi neuroni consiste nell’innescare il meccanismo dell’imitazione, ma in neuroscienza questo termine non ha a che fare con il conformismo. Pensiamo a cosa accadde in Germania negli anni Trenta: Hitler si convince e sostiene che una persona, nello specifico l’ebreo, non è una persona, ma una razza inferiore, un “sub-uomo”. Con questo meccanismo ha fatto cose che non avrebbe mai fatto a un suo simile, perché altrimenti avrebbe provato empatia nei suoi confronti. Poi lui ha convinto gli altri con le tecniche oratorie della propaganda nazista, che hanno avuto più a che fare con la paura, la manipolazione e il condizionamento da un punto di vista ideologico-cognitivo che non neurologico dei neuroni specchio. Non si possono spiegare questi eventi solo con la scienza, ovviamente, perché la cultura e il contesto sociale hanno una fortissima influenza».

Con i nuovi strumenti di comunicazione, il metaverso, l’avvento dei robot, dobbiamo preoccuparci? Il nostro cervello sarà più vulnerabile?

«Io trovo molta esagerazione in chi sostiene che un domani tutto questo stravolgerà totalmente le nostre relazioni e il nostro modo di relazionarci all’altro. Il fatto è che, da un punto di vista neurologico, il rapporto che noi umani viviamo con un’altra persona in carne e ossa è molto diverso da quello che possiamo instaurare con un robot o in una realtà virtuale».

Meritava un Nobel?

«Mah, chissà… Sono stato proposto più volte e un anno, nel 2014, sono stato persino tra i favoriti. Non so se c’è ancora questa possibilità, ormai sto diventando vecchio. Purtroppo noi neuroscienziati non siamo mai la prima scelta, l’accademia svedese è più orientata verso la biologia molecolare, la genetica, la biochimica. Al di là del Nobel però sono soddisfatto: sono membro di numerose accademie e ho ricevuto tantissimi premi. Sarei paranoico a dire che non mi hanno riconosciuto a sufficienza… A parte la Svezia!».

Leggi anche…

Mostra di più

Giulia Masoero Regis

Giornalista pubblicista, collabora con OK Salute e Benessere, sito e giornale, e altre testate di divulgazione scientifica. Laureata in Scienze Politiche, Economiche e Sociali all'Università degli Studi di Milano, nel 2017 ha vinto il Premio Giornalistico SID – Società Italiana di Diabetologia “Il diabete sui media”; nel 2018 il Premio DivulgScience nel corso della XII edizione di NutriMI – Forum di Nutrizione Pratica e nel 2021 il Premio giornalistico Lattendibile, di Assolatte, nella Categoria "Salute". Dal 2023 fa parte del comitato scientifico dell’associazione Telefono Amico Italia.
Pulsante per tornare all'inizio