Quando era bambina non si sentiva al sicuro in nessun posto. Non a casa, non in macchina né in strada o a scuola. Ovunque Ema Stokholma, che all’epoca si chiamava ancora Morwenn Moguerou, aveva paura. A popolare i suoi incubi non erano creature immaginarie, nate dalla penna di Gianni Rodari e Roald Dahl, ma un «mostro» – come l’ha definito lei nel suo libro Per il mio bene – in carne e ossa, dai capelli scuri e la pelle bianchissima, vestito con larghe camicie di seta e lunghe gonne plissé. Quel mostro l’aveva messa al mondo, viveva con lei e il fratello Gwendal, la controllava e le faceva male. Quel mostro, che avrebbe dovuto metterla al riparo da ogni sofferenza e dolore ma che invece era capace solo di riversarle addosso violenza e risentimento, era sua madre.
«Mi picchiava, mi insultava, mi accusava di azioni indecenti delle quali non conoscevo neanche il significato», racconta. «Mi infliggeva umiliazioni psicologiche e punizioni corporali che ancora oggi fatico a dimenticare, come tutte quelle volte che mi buttava nell’acqua gelata della vasca da bagno o mi faceva correre su strade isolate mentre mi inseguiva con la macchina. Un giorno mi ha persino portata sul ponte che sovrasta il fiume Isère, nella cittadina francese in cui abitavamo, per incitarmi a buttarmi giù e farla finita. Vivevo contando i minuti che mi separavano dallo schiaffo, dalla minaccia o dallo spintone successivi, che arrivavano sempre all’improvviso, senza un motivo preciso. La rabbia le saliva di getto, senza grandi avvisaglie, e non sapevo mai fino a dove si sarebbe spinta».
Per molto tempo ha preferito tenere per sé questa storia di violenza e dolore, poi nella sua testa è scattato qualcosa e ha deciso di condividerla. Come mai?
«Scrivere la mia storia avrebbe riaperto ferite che, col tempo, ho faticosamente rimarginato. Non ho mai trovato davvero il coraggio di farlo, non fino al giorno in cui ho letto di un bambino di Napoli morto tra le mura di casa per le botte prese dal patrigno. In quel momento, con il giornale aperto sulle ginocchia, sono tornata a vent’anni prima quando, al secondo piano di quella piccola palazzina a Romans-sur-Isère, nel Sud-Est della Francia, le mie giornate erano scandite dagli accessi d’ira, dalle urla e dalle sberle di mia madre. In una manciata di secondi ho provato la stessa rabbia di allora, con la differenza che quel bambino, diversamente da me, non c’era più. Mi sono chiesta come mai nessun adulto fosse riuscito a fermare quell’orrore. Lì ho capito che era arrivato il momento di condividere il mio passato».
Questo libro, infatti, è un’accusa verso sua madre ma anche verso chi non si è accorto di cosa stesse accadendo in casa sua…
«È vero. Da piccola non solo odiavo mia madre, ma provavo anche un profondo senso di solitudine: non potendomi difendere da sola, speravo in un aiuto esterno che però non è mai arrivato. Con questo libro ho cercato di scuotere le coscienze delle persone perché tutti possono provare ad aiutare i bambini che subiscono violenze, magari facendosi una domanda in più, prestando attenzione ai campanelli d’allarme, non esitando a fare una segnalazione o una denuncia. In questo modo non faremo del bene solo al piccolo, ma anche a chi si accanisce contro di lui, che dev’essere fermato e curato. Come sarebbe dovuto succedere a mia madre».
Questo clima di violenza in cui lei è cresciuta che ripercussioni ha avuto sulla Ema adulta?
«Ti senti come una sedia con una gamba traballante: ne hai altre tre solide che ti sorreggono ma sai già che la quarta, prima o poi, cederà e ti farà cadere. Quando sei una bambina non ti accorgi che tutta quella violenza ti sta scavando dentro fino a formare una voragine, della quale prendi coscienza solo in età adulta. Sono cresciuta con la convinzione che, a prescindere da tutto, mia madre mi amasse, altrimenti mi avrebbe abbandonata prima, non mi avrebbe dato un tetto sopra alla testa o non mi avrebbe dato da mangiare. Quindi ho imparato che l’amore può anche essere violento.
A livello relazionale non è stato facile fare i conti con questa mentalità. Il mio analista mi ha fatto capire che il mio modo di ricevere affetto è sempre stato feroce e brutale, di conseguenza la mia modalità di dare amore è sempre stata un po’ confusa, un po’ borderline. Da piccola, poi, temevo a tal punto mia madre che arrivavo a stare ferma immobile per ore, in apatia totale, aspettando che il tempo passasse. Mai una carezza, mai un complimento, mai un incoraggiamento. Questo negli anni si è tradotto in una mancanza di autostima che, ancora oggi, fatica ad abbandonarmi. Anche quello della maternità è un tema per me delicato. Non ho mai sentito il desiderio di diventare genitore, ma a frenarmi credo sia anche l’assenza di un modello da seguire per poter crescere ed educare i miei figli».
Con una storia cosi dolorosa alle spalle, forse per alcuni giovani sarebbe più facile perdersi. Come ha fatto a diventare, come lei stessa si è definita, una persona giusta?
«In realtà da quando sono scappata da casa, a 15 anni, ci ho provato con tutte le mie forze a prendere una cattiva strada. Era l’unico modo per dimostrarmi che ero io ad avere il controllo sul mio corpo e sulla mia mente, e non mia madre. A un certo punto, però, mi sono resa conto che, da quando ne avevo memoria, la mia vita era sempre stata imperniata sul dolore – che mia mamma ci fosse o meno – e che da quando me n’ero andata di casa le cose non erano granché migliorate. Allora ho deciso di darmi una regolata, perché volevo iniziare a stare bene. Ho attraversato diverse vite prima di trovare la stabilità, una nuova famiglia (mio fratello e nuovi amici) e la felicità».
Oggi sua madre non c’è più, ma se potesse dirle per l’ultima volta qualcosa, cosa sarebbe?
«Col tempo, e con l’aiuto dell’analista, ho capito che mia madre non aveva coscienza delle sue azioni. Non mi ha mai chiesto scusa e talvolta non si ricordava nemmeno di avermi picchiata. Era una persona malata, che avrebbe avuto bisogno di aiuto. Ed è forse per questo che oggi non sono più arrabbiata con lei, anzi, l’ho abbracciata mentalmente. Se fosse qui ora le darei semplicemente un foglio con un grande cuore sopra, da appendere sul frigorifero. Il primo disegno che farei per lei sarebbe anche quello che le ricorderebbe che l’ho perdonata».
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